Perché?
di Sabato Bufano
Era il nostro secondo
giorno di vacanza. Finalmente sdraiato a scottarmi al sole, a godermi
la compagnia delle mie due bambine e di mia moglie, dopo un anno in
cui così poco tempo avevo potuto dedicare loro. Eravamo arrivati
da poco: avevamo piantato il nostro ombrellone, steso i nostri teli
da sole, aperto le nostre sedie di plastica. Era presto: anche se
era domenica non erano in molti sulla spiaggia. Avevamo seguito scrupolosamente
i consigli che puntualmente, ad ogni estate, giornali e TV ci propinano:
crema protettiva per le bambine, crema anche per noi, le ore di sole
migliori e meno dannose. Alle sette e mezza già eravamo in
spiaggia, con l’intenzione di andarcene al massimo a mezzogiorno.
Intorno a noi tanti come noi: famiglie con bambini urlanti, padri
col loro giornale, madri con le amiche a discutere dell’ultima
fidanzata dell’attore tal dei tali, ragazze nei loro costumi
minuscoli a caccia degli sguardi del macho di turno, e pronte a mostrarsi
disturbate se lo sguardo arrivava, ragazzi che gonfiavano il petto
e si sforzavano in un “pancia in dentro” clamoroso quanto
evidente passando davanti alla biondina stesa al sole per i fatti
suoi. Ogni tanto la voce proveniente da una discussione animata, che
piazzava un “Governo ladro!” o un “Dove andremo
a finire?” o un “L’anno prossimo non mi fanno fesso!
La nostra sarà veramente una partenza intelligente!”,
commentando l’imbottigliamento nel traffico autostradale durato
ore e ore. Più in là altra discussione animata: “Bisogna
mandarli tutti a casa, questi negracci! Sono sudici, e vengono a rubare
il lavoro ai nostri figli!”. Di là è appena passato
l’ennesimo extracomunitario, con le spalle cariche della sua
mercanzia e con gli occhi imploranti. Ha ricevuto l’ennesimo
“Non ci serve niente!”. Penso tra me e me: “Chissà
se il figlio di quel signore corpulento aspira a vendere cianfrusaglie
sulle spiagge? Se sì, è un guaio: questo marocchino
gli sta togliendo il pane di bocca!”.
Sotto ogni ombrellone discorsi simili, problemi simili, risate simili,
a consumare quello che ormai ogni anno è un rito, quello delle
“ferie”. Anche noi partecipiamo al rito di queste famiglie
piccolo borghesi, che in fondo stanno bene, ma che si lamentano. Che
pagano un mucchio di tasse, ma che non lesinano niente a sé
e ai figli, perché “sennò che figura ci facciamo
con i vicini?”.
Mia moglie e la nostra bambina più grande sono in acqua: mia
figlia non ne uscirebbe mai! Io gioco sull’asciugamano con la
più piccola: ha sei mesi, sa mantenersi seduta, anche se di
tanto in tanto prende solenni capitomboli, e poi ride divertita. Sono
seduto accanto a lei e fingo di capitombolare anch’io.
È in questa atmosfera che sento toccarmi una spalla. È
un bambino di colore, ha forse dieci o dodici anni: sulle esili spalle
uno zaino che dev’essere pesantissimo, il ragazzino ha infatti
un’andatura obliqua. Nelle mani tutto un campionario di giochini
di plastica, ciondolini, anatre gracidanti, palloncini.
Inizia a dondolare uno dei suoi giochini davanti agli occhi della
bambina, producendo un tintinnio argentino e colorato: io gli dico
di no, non è il caso, lo allontano. Lui insiste a dondolare,
la sua tattica evidentemente è testata: i bambini sono attratti
dai colori e dal tintinnio. E sanno come convincere i genitori. In
me scatta l’istinto di protezione per la mia bambina: quella
è un’intrusione, quel ragazzino nero, forse sudicio,
è troppo vicino alla mia bambina! In quel momento non provo
vergogna per questi pensieri, la proverò in seguito! Lo allontano
più energicamente.
Lui mi guarda, con due occhioni chiari grandi così, stupiti,
imploranti. Mi sono rimasti scolpiti nel cuore, quegli occhi: chiarissimi,
grandissimi, incastonati in un viso ovale, nero come la pece. E mi
chiede: “Perché?”. Una sola parola, tagliente:
“Perché?”. Forse in quella domanda la sorpresa
per non voler far divertire la mia piccola col suo gioco. Ripensandoci
dopo ho cercato di interpretare i suoi pensieri: “I bambini
devono giocare, alla loro età devono giocare e divertirsi!
Perché questo signore con gli occhiali non vuole che la sua
piccola giochi? Forse è uguale ad altri adulti che ho incontrato:
loro non vogliono che io giochi. Io devo lavorare, per farli contenti.
Devo portare soldi, se voglio mangiare. Per me non ci sono giochi.
Io non posso divertirmi. Però sarei contento di regalare un
sorriso a questa bimba, con uno dei miei giochi. Ma questo signore
con gli occhiali non vuole!”.
I suoi occhioni sono ancora fissi nei miei. Non capisce: l’espressione
del suo viso è chiara. Io difendo la mia bambina, la difendo
dalle intrusioni di chi è “diverso” da noi. In
me prendono forma tutte le dicerie, il perbenismo, il razzismo, cos’altro?
E la sua domanda di bambino che incontra altri bambini, che giocano,
che hanno la possibilità di giocare, è ancora lì,
sempre più tagliente: “Perché?”
Lui no, non può giocare, non lo fa: lui deve lavorare, per
sé, forse per chi lo sfrutta: che da lui vuole soldi, non sorrisi.
Rendita, non giochi.
A tutto questo non ho pensato, quando tu ti sei accoccolato accanto
a noi, e dondolavi il tuo giochino davanti agli occhi di mia figlia.
E lei rideva, divertita. Lei non sa ancora niente delle povertà
di noi adulti. Delle nostre miserie. Del nostro razzismo. Del nostro
perbenismo. Lei rideva. Perché si divertiva: un bambino come
lei, un po’ più grande, la invitava a giocare. Lei non
sapeva, e non pensava neanche, che quello era un bambino nero, un
“extracomunitario”, uno da canzonare, forse, ma sicuramente
da evitare.
E quegli occhi grandi, dolci, interrogativi, sorpresi, me li sono
portati con me a casa. E sono ancora lì a inchiodarmi.
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