Born to be wild
di Enrico Pietrangeli
Nico esibiva orgoglioso
una cicatrice sull'avambraccio destro alla piccola Ketty: un evidente
fregio da lama che appariva come una virgola di carne tumefatta e
rattrappita; lei, non sembrava affatto inorridita da quanto, stando
sulla strada, ribadiva dure certezze per un selvaggio vivere. Ketty,
con i suoi lineamenti da minuta ragazzina, finiva sempre col rannicchiarsi
tra le possenti braccia di Nico, un muscoloso eroe da fumetto con
cui condivideva i resti di una costruzione occupata. Era un luogo
lontano e notoriamente malfamato dove, tra rifiuti e quant'altro,
in un costante raffermo olezzo si guarniva qua e là il paesaggio
di anfratti bui, silenziosi della sola desolazione rotta dallo scricchiolio
di soffici tappeti di preservativi e siringhe in cui s'incorreva al
passaggio. Nico, quella sera, si acquietò presto, nonostante
il freddo, mentre, stanco, stringeva a sé le esili forme di
Ketty, proprio in un angolo di quelle disfatte cavità in cemento
armato; trattenendo ancora, con gli occhi socchiusi, il mozzicone
della sigaretta: un moncone irto di cenere che, nel sopraggiungere
del torpore, pendeva sempre più vistosamente dal labbro inferiore.
Un vento, cupo e gelido, sussurrava le ultime parole non dette mentre
loro, avvinghiati, caddero presto nell'agognato sonno intiepidendosi
del calore dei soli corpi. La notte, a dire il vero, sembra non aver
mai abbandonato certi posti…ma quella, oltre a un tempo da lupi,
aveva il sapore di una disfatta stanchezza…Giorni su giorni
consumati in un vivere ai margini, fatto di espedienti e furti ma
anche di forzati digiuni ed altri intrugli: droghe sporche, di quelle
con l’etichetta e che si trovano anche in farmacia. Più
tardi, nel cuore delle tenebre (così come sarebbe opportuno
dire solo se si vivesse, come loro, bivaccando in qualche sperduto
ed informe tugurio all’inferno) al sibilo del vento si aggiunse
il rombo più greve di una potente moto. Seguirono passi incerti,
costellati di un vociferare alticcio; quello che, all’apparenza,
parrebbe l’abituale andirivieni dei soliti quattro ubriaconi.
Tutt’intorno il nulla, di tutti senza appartenere a nessuno:
una terra senza regole e frontiere dove Nico e Ketty dormivano dividendo
lo stesso spazio con tossici e prostitute durante il giorno. Non c’erano
ragioni per venirsi a bucare come sorci rintanati durante la notte
e, il clan delle nigeriane, si sa, la sera scende giù, sulla
statale. Il rumore del motore tornò di nuovo a rombare e, subito
dopo, si udì ancora la sola voce del vento. Nessuno, oltre
la notte, sembrava presenziare ancora. Scorse in fretta quell’ultimo
lasso di oscurità, di verosimile quiete, lasciando addentrare
ancora i chiarori di un nuovo giorno, quasi a confortarci della presenza
di un Dio persino in quel posto. Non si poteva dire che fosse ancora
spuntato il sole quando una pattuglia della polizia costeggiò
quella specie di fabbrica dimessa, l’agente Mazzi bloccò
immediatamente l’auto richiamando l’attenzione del brigadiere
sul del fumo, di quello nero, messo in risalto dal bagliore delle
sottostanti fiamme che s’intravedevano dalla fessura di uno
sfiatatoio. Il brigadiere Orlandi, senza indugiare, dette ordine a
Mazzi di chiamare alla radio e, insieme al terzo agente che sedeva
sul retro, non tardò un istante a discendere dal veicolo per
dirigersi, nella dovuta cautela, ad effettuare un primo sopralluogo.
Mazzi agguantò subito la radio comunicando coordinate ed eventi
alla centrale poi, lanciando un altro sguardo attraverso il finestrino,
afferrò una mela dal suo tascapane per morderla con un evidente
senso di eccitazione. Sputò infine buona parte della buccia,
ma solo dopo averla per un po’ nervosamente masticata, quindi
tirò fuori un auricolare dalla tasca, socchiuse gli occhi sistemandoselo
nel suo orecchio destro e, con determinazione, pigiò il dito
sul sensore del play collocando il volume al massimo:
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