Caro professore

di William Lecci


“Caro professore,
le scrivo sperando che si ricordi ancora di me, anche se sono trascorsi già sette anni da quando mi sono diplomata. Sono Myriam Balestri ed ero quella ragazza di quinta A seduta al terzo banco che la prendeva in giro per il suo buffo ciuffo di capelli che le rimaneva sempre rizzato sulla testa, nonostante i suoi sforzi per domarlo.
Ora ho una figlia di sei anni e lavoro sporadicamente in un supermercato come cassiera sperando di trovare qualcosa di meglio per me e Aurora, la mia bambina. Probabilmente si chiederà il perché di questa lettera, ma ad essere sincera il vero motivo per cui le scrivo lo ignoro anch’io. Forse un pizzico di nostalgia degli anni spensierati della scuola, forse il bisogno di raccontare a qualcuno la mia storia o semplicemente la paura del tempo che mi sta passando davanti come un treno in corsa mentre io attendo immobile perché sfornita di biglietto.” Così iniziava la lettera che distrattamente ho ritirato dalla buca delle lettere insieme ad un mucchio di volantini pubblicitari e di bollette da pagare. Stranamente Myriam la ricordavo bene, nonostante normalmente col tempo mi risulti difficile associare nomi e volti dei numerosi alunni con cui ho condiviso tanti momenti negli anni di insegnamento in un istituto tecnico commerciale di Foggia. Era una ragazza dalla intelligenza vivace e dalla battuta pronta. Non ebbe un voto di diploma molto alto, ma tutti pensavano che comunque avrebbe avuto successo nella vita perché era in gamba.
Accidenti! Sono passati sette anni ed ha pure una figlia!, pensavo. Chissà perché nessuno avverte gli anni che avanzano e ci limitiamo solo talvolta a considerare come sia invecchiato Tizio o quanti capelli abbia perso Caio. Credo, semplicemente, che notare come cambia l’aspetto degli altri, senza soffermaci a considerare come anche il nostro sia cambiato, sia un modo per esorcizzare il timore della vecchiaia che tutti consapevolmente o no ci portiamo dentro.
Da ragazzo speravo che gli anni potessero passare in fretta, anzi non vedevo l’ora che mi crescessero la prima peluria sotto il mento e i primi peli sotto le ascelle che, per un quattordicenne, sono simboli di virilità e di appartenenza al mondo degli adulti.
Ricordo ancora distintamente quella volta che mi sentii “grande” ma allo stesso tempo in cui provai un grosso imbarazzato misto ad una sensazione di paura. Era un pomeriggio d’estate e mentre passeggiavo da solo sulla spiaggia di Siponto; un biondino di bassa statura e di una decina di anni più grande di me mi si parò davanti e mi chiese, senza mezzi termini: “Andiamo?”. Sul momento non capii il perché di tale invito e soprattutto “dove” volesse andare; ma poi, facendo caso al modo strano in cui mi guardava e intuendo che si trattava di una persona con “tendenze particolari” gli risposi, mascherando il mio disagio con un atteggiamento da uomo navigato:- Amico, io vado solo con belle donne. Poi, senza avere il coraggio di aspettare una sua replica, mi voltai e mi affrettai a raggiungere l’ombrellone che, mai come quella volta, mi era sembrato così lontano..
Ormai mi ero reso conto che era tempo per me di trovarmi la ”ragazzina”; facile a dirsi, ma l’impresa mi sembrava abbastanza ardua a causa del mio aspetto fisico di allora che francamente non mi gratificava: altezza pochina, naso grande e gibboso, sopracciglia particolarmente folte tanto da potersi pettinare insieme ai capelli, occhi: due.
Continuavo a stringere fra le mani quella lettera distratto dai ricordi della mia adolescenza e resomi conto che era ormai ora di andare a riprendere i miei bambini all’uscita della scuola elementare che frequentavano, mi affrettai a uscire di casa e continuai a leggere la lettera in ascensore.
“Si ricorda di Marco, quel ragazzo alto magro, un pò lentigginoso e con un paio di occhialini tondi in metallo che gli conferivano l’aria di un giovane intellettuale di sinistra? Non piaceva a nessuna delle mie amiche perché dicevano che era bruttino, anzi mostruoso, ma io ci andavo pazza. Fu durante il periodo della “occupazione” della scuola che come consuetudine iniziava nei primi giorni di dicembre e terminava col rientro a scuola dopo la pausa delle vacanze natalizie, che ci innamorammo. Arrivò il periodo degli esami e spesso ci incontravamo per prepararci condividendo le stesse paure ma anche la voglia di continuare l’avventura della nostra vita insieme. Quanti progetti facevamo per il futuro! Quante promesse e quanti giuramenti di eterno amore!. Ci diplomammo e per un certo periodo le cose procedettero senza grosse novità, preoccupati solo di cercare un lavoro e di avere qualche soldo da spendere il sabato sera. Una giorno, però, cominciai ad avvertire nausea e capogiri; sul momento non detti importanza alla cosa, pensando che il mio malessere fosse da attribuire ad un periodo di eccessivo stress, ma poiché tali episodi cominciarono a ripresentarsi con maggiore frequenza, decisi di andare a chiedere il parere del medico di famiglia ad insaputa dei mie genitori e di Marco. Non gli ci volle molto a capire che ero incinta e mi consigliò di avvisare subito i miei del mio stato.”
La campanella di uscita dei bambini era già suonata da un paio di minuti quando arrivai trafelato al cancello della scuola. Gruppi di scolaretti in grembiule blu avanzavano urtandosi fra loro sotto il peso sproporzionato di zaini multicolori, capeggiati da maestre ansiose di correre a casa per preparare il pranzo, mentre i genitori si accalcavano all’uscita cercando di individuare il proprio figlio o la propria figlia che, con aria un po’ smarrita, cercava il viso di una persona conosciuta tra la gente.
Io mi facevo largo in mezzo a quella confusione sforzandomi di individuare la fisionomia dei miei bambini che, a mio parere, sembravano tutti uguali. In genere erano i miei bambini che trovavano me, divertendosi a strattonarmi mentre ancora i miei occhi miopi si sforzavano di mettere a fuoco le immagini degli alunni dell’ultima classe che stava uscendo.
Afferrate le loro manine ancora sporche di inchiostro ma profumate di merendine al cioccolato, gravato del peso dei loro zainetti, mi avviai verso casa . Alla fermata dell’autobus due anziani signori parlavano di “acciacchi”,” medicine”ed “interventi chirurgici vari”. Quello più robusto, come un eroe di guerra al ritorno dal fronte che commenta le sue cicatrici con gli amici, mostrava con orgoglio i suoi venti punti di sutura esterni assicurando di averne altrettanti internamente, conseguenza di un recente e non ultimo intervento allo stomaco. L’impresa non si dimostrò tanto facile, in quanto fu necessario sollevare tre o quattro maglie di lana per riuscire a scoprire, senza alcun pudore, quello strano tatuaggio fatto dal chirurgo. Quello più magro, per non essere da meno, si affrettò a sbottonarsi cardigan, camicia e busto ortopedico per mostrare una lunga cicatrice che gli attraversava il torace verticalmente; poi con l’aria da incallito giocatore di poker che mostra le carte dopo aver dato al suo avversario l’illusione di aver vinto, disse:- trenta punti interni e trentacinque esterni!.
Ero curioso di leggere il seguito della lettera e una volta a casa, cercai di lisciarla alla meglio col palmo della mano nel tentativo inutile di poterle ridare una parvenza che si avvicinasse alla sua forma originale.
“Nonostante il consiglio del mio medico, ero fermamente decisa a non farne parola con i miei genitori finchè non ne avessi parlato prima con Marco. Chissà come l’avrebbe presa! Certo che ci sarebbe rimasto di stucco, ma poi , conoscendolo, mi avrebbe sicuramente sostenuta e mi avrebbe detto, con tono protettivo, che avrebbe fatto in modo da non fare mancare nulla sia a me che alla nostra creatura. Cercavo, così, di sdrammatizzare quella situazione a dir poco angosciosa che avrebbe sicuramente sconvolto la mia tranquilla esistenza di figlia permutandola in quello di madre. Cominciavo, poi ad essere assalita da laceranti dubbi circa la il comportamento che Marco avrebbe assunto; in fondo non ci eravamo mai trovati di fronte a grosse difficoltà o in situazioni in cui si potesse manifesta a pieno il suo vero carattere.. Avevo tanta paura di affrontare i miei genitori, Marco e le nuove responsabilità, ma mi feci coraggio e decisi che lo avrei chiamato al telefono chiedendogli di incontrarlo quella stessa sera”. Sollevai lo sguardo dal foglio per allentare la tensione che quella lettera mi provocava; in fondo cosa centravo io in tutta quella storia?. Eppure mi sentivo coinvolto emotivamente quasi fosse stata mia figlia a parlarmi.

Mi avvicinai alla finestra e attraverso i vetri vedevo alcuni ragazzini affannarsi a correre dietro un pallone, indossando quelle che dovevano essere, con un tanta fantasia e molto spirito di adattamento, divise da giocatore quasi perfette. Le giornate si stavano allungando e la primavera era alle porte. Pensai a mio suocero che quotidianamente controllava lo stato di salute del suo grano, con la rassegnazione e la pazienza di colui che è consapevole che una semplice “gelata”avrebbe potuto mandare a monte un anno di lavoro. Come ormai di consueto, nel mese di giugno, dopo che il primo agricoltore avesse “aperto le danze” della mietitura, provocando, con effetto domino una vera e propria fibrillazione emotiva nei proprietari terrieri della zona invogliandoli a mietere al più presto, mio suocero mi avrebbe chiamato per chiedere la mia “assistenza”. Il mio compito, di solito, consiste semplicemente nel fare la spola su di un camion , insieme al trasportatore, dalle mietitrebbie ai silos dove il grano viene pesato ed immagazzinato in “ conto deposito”. In quella occasione in cui i ruoli che si occupano normalmente nella vita di ogni giorno vengono ribaltati e l’esperienza e la conoscenza delle varietà di grano duro, sono determinanti nello stabilire chi sia l’insegnante e chi invece l’allievo, da professore di inglese, divento apprendista coltivatore, timoroso sempre di dire qualcosa di errato e di manifestare la mia completa ignoranza per tutto ciò che concerne l’agricoltura, come quella volta che scambiai dei covoni di paglia torreggianti in un campo, per covoni di grano mietuto, come mamma televisione spesso ci faceva intendere che fossero attraverso la pubblicità dei biscotti.
Anche quest’anno, il mio “Virgilio” della situazione sarà il signor “Giggino”, come lo chiama mio suocero, il trasportatore non più giovane, dalle profonde rughe sul volto scavategli dalle tante ore trascorse sotto il sole, un occhio semichiuso e l’altro chiuso completamente, con l’aria di chi riesce a scrutare nelle profondità dell’animo umano e l’immancabile stelo di fieno al lato della bocca, reminiscenza di quella che doveva essere una sigaretta poi trasformatasi, in seguito ad una spietata diagnosi medica, in innocuo filo di paglia.
La sua preparazione sulle varietà dei grani, le sue competenze nello stabilire l’esatto grado di maturazione dei chicchi e la sua enciclopedica conoscenza delle generazioni che si sono susseguite nel possesso dei terreni coltivati, hanno sempre provocato in me una certa forma di soggezione dovuta alla mia consapevolezza di non essere in grado di capire e vivere quella diversa realtà della vita rurale.
Quando la scorsa estate, attendendolo in mezzo al campo di grano assolato, lo vidi arrivare sul suo camion impolverato che ad ogni fosso che prendeva sobbalzava sembrando una nave in balìa delle onde durante una tempesta, per una certa forma di rispetto dovuta sia alla sua maggiore età che alla sua esperienza, gli andai incontro, in attesa che il suo mezzo si fermasse per poterlo salutare.
Erano già trascorsi un paio di minuti da quando “Giggino” era arrivato, ma stranamente non compariva ancora da dietro il camion fermo. Incuriosito per quell’ingiustificato ritardo, decisi di aggirate il pesante mezzo e di andargli a stringere la mano. Fu allora che, mio malgrado, dovetti sperimentare ciò che gli astronauti definiscono -punto di non ritorno-, vale a dire il punto da cui non puoi più tornare indietro , ma sei costretto a proseguire il tuo viaggio, qualunque possa essere il tuo destino. Col braccio teso e la mano spalancata, abbozzando un sorriso d’occasione, gli rivolsi il saluto. Con l’espressione impassibile da vecchio eroe di film western prima di un duello, lo sguardo penetrante dell’unico occhio aperto, il solito stelo di fieno all’angolo della bocca e senza mostrare alcun imbarazzo per quello che stava facendo, Giggino mi stese la sua mano dopo aver mollato con calma il suo”pisello”, fino a qualche secondo prima impegnato a rinfrescare con il suo getto, le ruote arroventate del camion. Avvertii la sgradevole sensazione della sua stretta energica, ma umidiccia e corsi, appena riuscii a liberarmi da quella morsa, a sciacquarmi la mano “contaminata” con le ultime gocce di acqua minerale rimaste nell’unica bottiglia che avevo. Da quel giorno capii perché, quando ci si incontra per i campi, dove gabinetti pubblici e lavabi scarseggiano, tutti si salutano romanamente sollevando la mano destra, evitando così brutte sorprese. Le ombre della sera cominciavano a scendere sulla città e solo quando sentii suonare alla porta, mi risvegliai da quella specie di torpore che mi aveva fatto perdere la cognizione del tempo e dello spazio. Era un inquilino del mio palazzo che mi ricordava di non mancare assolutamente all’assemblea condominiale di quella sera perché vi erano “ punti importantissimi” all’ordine del giorno da discutere.
Accennando forzatamente un sorriso, promisi di non mancare anche se in cuor mio avevo già programmato di non andarci per evitare di assistere alle solite “risse” e “sceneggiate napoletane”. Mangiai velocemente un boccone e dopo aver indossato il primo paio di pantaloni e la prima maglietta decenti che ero riuscito a trovare in mezzo al disordine del mio armadio, mi incamminai verso il “patibolo”.
Portai con me la lettera che ormai non mollavo più, quasi fosse diventata parte integrante del mio corpo ed approfittando dell’attesa antecedente l’inizio della bagarre, ripresi a leggere.
“Marco apparve sorpreso quando apprese che dovevo incontrarlo immediatamente perché avevo bisogno di parlare con lui di un problema che avrebbe sicuramente comportato uno stravolgimento delle nostre tranquille esistenze. Quasi presagendo qualcosa di molto grave, nel tentativo anche di allentare quella tensione che ormai non riuscivo più a celare, mi fece una risatina per telefono dicendomi :”Non starai mica per diventare mamma?”.
Non risposi e seguirono interminabili secondi di “gelo”. Lo avvisai, poi, che ci saremmo incontrati alle otto alla nostra solita panchina. Marco già era lì quando arrivai e non riusciva a nascondere il nervosismo che, quando lo assale, si manifesta con un leggero“tic” al lato della bocca, quasi come una specie di sorriso. Appena mi vide, senza neanche salutarmi, mi chiese:-Allora cos’è tutta questa fretta per vedermi, non potevi aspettare domani per incontrarci?.
Non risposi subito, ma continuai a camminare accanto a lui guardando il mondo intorno a me che era del tutto indifferente ai miei problemi. Poi improvvisamente mi fermai e lo fissai negli occhi.”E se così fosse?” gli chiesi. “Fosse cosa?” replicò lui. “Se aspettassi veramente un bambino?”. Marco ammutolì e proseguimmo ancora per qualche metro. Poi mi afferrò energicamente le spalle con tutte e due le mani e mi disse:- Ma cosa stai dicendo, stai scherzando, vero?. “Non scherzo affatto e non mi piaci come la stai prendendo, visto che il “merito” è anche tuo”.
“Calmiamoci ora”, disse Marco “Cerca di capire, non ero preparato ad una notizia del genere”. “Scusami, ma ne sei proprio sicura?”. “Sicurissima, oggi ne ho avuto la conferma dal mio medico”.
“Non facciamoci prendere dal panico ora e cerchiamo di non perdere la calma. In fondo ci vogliono ancora nove mesi”, aggiunse, nello sterile tentativo di fare una battuta di spirito che mascherasse la paura che cominciava ad assalirlo.” Facciamo una cosa, ora ce ne torniamo ognuno a casa propria e facciamoci una bella dormita; in fondo la notte porta consiglio, nevvero?”. Quelle parole dette così senza senso mi confermavano l’impressione che avevo ricevuto: Marco aveva voglia di “fuggire da me” e non vedeva l’ora che terminasse il nostro colloquio. Senza neanche voltarmi mi asciugai le lacrime che cominciavano a rigarmi il viso e farfugliai tra i denti :”Ci sentiamo domani”.
L’assemblea condominiale iniziò con circa mezz’ora di ritardo e prevedevo de sarebbe terminata dopo mezzanotte. Gli “schieramenti” avevano preso posizione ed i rispettivi leaders davano segni di impazienza, desiderosi di confrontarsi e di ingaggiare al più presto la “colluttazione verbale” senza però disdegnare anche quella fisica, se ce ne fosse stato bisogno. L’argomento primario all’ordine del giorno era la richiesta , da parte di un certo numero di condomini, di trasformare il fatiscente impianto centralizzato a gasolio, in impianto a gas autonomo. Per l’occasione partecipavano all’assemblea persone che non avevo mai visto precedentemente e che non credevo che abitassero nel mio stesso palazzo. Riconobbi, però, un gruppo di “pie donne”, assidue frequentatrici della vicina parrocchia di San Ciro, che non perdevano mai un pellegrinaggio per Lourdes o per Assisi; vi era un noto medico che era da tutti considerato molto competente nel suo lavoro; c’erano poi avvocati, commercialisti, pensionati e gente di ogni livello culturale e sociale.

Finalmente il Presidente dell’Assemblea , alla presenza dell’Amministratore del condominio dette inizio al dibattito: fu allora che ognuno degli astanti cacciò fuori il peggio di sé, facendo prevalere i propri istinti bestiali e mostrando a tutti che tipo di persone fossero realmente.
Le”pie donne” che normalmente evitavano di incrociare lo sguardo quando incontravano qualcuno nell’atrio del palazzo non si sa se per una marcata forma di “pudore” oppure perché così aride da essere incapaci di salutare anche semplicemente con un sorriso, avevano sfoderato le unghia ed inveivano contro un pensionato che aveva preso ormai l’abitudine quotidiana di trascorrere il suo tempo libero, dalle sette di mattina fino ad ora di pranzo e dalle sedici alle venti , a controllare ogni minimo particolare della struttura dell’edificio, gli interventi di riparazione che gli operai ormai quasi quotidianamente erano chiamati ad effettuare ed i movimenti del portiere, per essere in grado, poi, di relazionare anche su quante volte quest’ultimo fosse andato al bagno.
Il noto medico, dimentico del giuramento di Ippocrate fatto all’inizio della sua carriera, che impone alla categoria di fare il possibile per salvare vite umane, prometteva con veemanza che avrebbe sparato in mezzo agli occhi al suo dirimpettaio, grasso, basso e col diabete. Gli avvocati presenti usavano tra di loro frasi e appellativi che certamente non avevano appreso da alcun testo giuridico, ma piuttosto sembravano essere il frutto di una lunga permanenza alla “Curva Sud” dello stadio comunale locale. Due distinti architetti, intanto, si erano impegnati in un violento corpo a corpo a terra, a cui partecipavano, di tanto in tanto, con qualche calcio nella schiena, le “pie donne”. In un angolo dell’atrio in cui si svolgeva la “cosiddetta assemblea”, il meccanico del quarto piano che gran parte dei “signori del palazzo” guardavano abitualmente dall’alto in basso con aria di superiorità, ripeteva ininterrottamente e con gli occhi pieni di stupore: “E questi sono i signori! E questi sono i signori!”. L’ assemblea terminò all’una di notte, con una richiesta di aggiornamento per non aver concluso niente. A terra si potevano contare quattro feriti gravi, due lievemente ed un ”morto di sonno” che di solito andava a letto alle otto di sera.
La mattina successiva andai a scuola portandomi dietro la mia solita valigetta strapiena di oggetti di ogni genere: compiti svolti in classe corretti e da correggere, testi scolastici e fotocopie , elastici, nastri adesivi, penne che avevano esaurito l’inchiostro già da alcuni anni, carte di caramelle, tre o quattro liste della spesa di mia moglie, qualche decina di scontrini, gomme, matite, bustine di crackers frantumati, cassette e CDs, un paio di mostri-giocattolo di mio figlio piccolo, una bolletta del gas non pagata, una ventina di punti delle merendine, ecc. ecc. Quella volta avevo aggiunto al “prezioso contenuto” anche la lettera che non ancora finivo di leggere, proponendomi di farlo durante “un’ora buco” fra quelle di lezione..
Salii trafelato le scale del mio Istituto sperando di non fa notare il leggero ritardo ai bidelli del piano a cui, comunque, non sfugge mai niente; purtroppo, come spesso accade quando si vuole passare inosservati, tutti notarono il mio arrivo in quanto quella “traditrice” della mia valigetta andò ad aprirsi proprio sull’ultimo gradino della scalinata, facendo accorrere un gruppo di studenti ritardatari che, crepandosi dalle risate, si prodigarono a raccogliere fino all’ultimo scontrino caduto, guadagnandosi così anche la giustificazione per il ritardo a scuola.
Alla ”terza ora” mi recai sella”sala de professori” e finalmente ripresi la mia lettura indisturbato.
“La mamma si accorse subito che qualcosa non andava, anche perché era impossibile nascondere il mio stato di agitazione e gli occhi rossi ed un po’ gonfi per il pianto.
Pensai che avrebbe capito e avrebbe saputo consigliarmi come aveva sempre fatto nei momenti di difficoltà. Mi sedetti sul letto della mia cameretta e la mamma mi si sedette accanto portandomi la sua mano premurosa sulla spalla. – Cosa c’è che non va, Myriam? Hai bisticciato con Marco?- Non risposi, continuando a fissare una foto appesa al muro che mi ritraeva mentre spegnevo cinque candeline sulla torta di compleanno. Poi mi feci coraggio e dissi: - Mamma, sai che non ti ho mai raccontato bugie e non lo farò neanche questa vota. Aspetto un
bambino e Marco lo sa-. La mamma non disse niente, ma ritirò lentamente il braccio che aveva poggiato sulle mie spalle e uscì dalla mia camera. Trascorsero dei minuti interminabili, poi si scatenò il putiferio; sentivo il babbo urlare:- E’ tutta colpa tua, le hai voluto dare completa fiducia ed ecco come ti ha ripagata!- La mamma aveva iniziato a piangere ed a singhiozzare rumorosamente. –Ma io domani a –quella- la mando via di casa, provvedesse ora a lei quel buono a nulla!”.
Avvertii una stretta al cuore fortissima e quasi svenni per il dolore, poi mi accartocciai sul mio letto assumendo una posizione fetale, come nella speranza di ritornare nel ventre materno in cerca di rifugio, ma più probabilmente nel tentativo proteggere la mia –creatura- dalle crudeltà del mondo che, nella sua innocenza, ancora non sperimentava direttamente.
Così mi addormentai senza cambiarmi , ma il mio sonno fu turbato da incubi spaventosi in cui mi trovavo sola con una bimba in un deserto, con una grande arsura e lunghe cicatrici sul volto dovute all’aggressione da parte di qualche bestia feroce”.
Lo squillare della campanella mi ricordò che avevo lezione in terza A, così mi diressi verso le scale evitando volutamente l’ascensore per non impigrirmi. Quasi subito incrociai Caggiero, uno dei bidelli del mio piano, una carissima persona di animo generoso. Ogniqualvolta mi incontrava voleva assolutamente che accettassi una delle sue caramelle che riempivano sempre le sue tasche; non ne aveva in realtà una gran varietà perché si limitava a comprarne solo di due gusti: menta ed anice. Le prime volte mi permetteva di scegliere e prendevo quella alla menta, confessandogli che odiavo quelle all’anice; in seguito, però, decise lui e quasi sempre mi capitava “anice”.
Caggiero proveniva dalla provincia di Foggia ed ogni mattina era costretto a svegliarsi all’alba per raggiungere la scuola prima dell’orario d’entrata degli alunni. Da ragazzo non aveva avuto la possibilità di studiare e pertanto l’unica lingua in cui riusciva ad esprimersi era il dialetto del suo paese che per me era quasi “arabo”. Per non farglielo pesare, quando a volte parlavamo di qualche episodio di cronaca o del tempo atmosferico, assentivo sempre con il capo fingendo di aver capito tutto ciò che diceva,dalla prima all’ultima parola. Solo una volta, se non vado errato, non mi andò bene. L’argomento di cui stavamo parlando era “l’onestà” e ci lamentavamo che oggigiorno di persone oneste ce ne sono poche. Poi mi arrivò una domanda a bruciapelo che non capii subito :-Professore, ho la faccia del disonesto io?. Applicando anche quella volta la regola che mi ero imposto quando parlavo con lui, gli feci segno di si, sorridendogli anche vistosamente. Caggiero ci rimase molto male e non mi rivolse la parola per due settimane ; quando mi vedeva, mi evitava e non mi regalava più le sue famose caramelle. Poi ci riconciliammo perché rielaborando con calma il senso della conversazione, mi resi conto di aver sbagliato nel rispondere affermativamente, così mi scusai con lui e tornammo ad essere amici e “compagni di caramelle”.
-Professò!- disse Caggiero salutandomi con un cenno del capo; poi si fermò e con fare misterioso infilò una mano in tasca e dopo essersi guardato intorno con circospezione, senza dire niente mi porse una delle sue caramelle. Lo ringraziai e proseguii la mia scalata stringendola nella mia mano destra; poi quando fui certo di non essere più visto, aprii lentamente la mano e la richiusi quasi subito:- ANICE anche stavolta- esclamai deluso.
Tornato a casa, ero deciso a terminare di leggere quella lettera che ormai mi seguiva dappertutto ed era diventata quasi un’ossessione per me, una specie di protuberanza del mio corpo che, in un certo senso, cominciava a crearmi un po’ di disagio, in quanto sembrava quasi che la voce di Myriam diventasse anche la voce della mia coscienza di uomo.
“La mattina successiva Marco mi telefonò e molto freddamente e senza chiedermi neanche come mi sentissi, esordì dicendomi che non dovevo preoccuparmi di nulla perchè aveva già trovato una soluzione al -mio- problema. Come inebetita gli chiesi :- Quale problema? -
Marco continuò a parlare senza ascoltarmi e cominciò a fare strani discorsi sulle responsabilità a cui si andava incontro, alla incapacità da parte sua di provvedere economicamente alle esigenze del bambino e a tutto ciò a cui dovevamo rinunciare impegnandoci in una scelta che ci avrebbe condizionato inevitabilmente la vita.
Continuavo ad ascoltarlo quasi ipnotizzata dal suo discorso che apparentemente non faceva una piega finchè la parola –aborto- non mi fece trasalire e mi fece svegliare da quell’innaturale torpore che mi stordiva. -Non devi avere assolutamente paura di nulla- continuava Marco nel suo monologo, -roba di mezz’ora circa; dopo, se vuoi, puoi anche tornare a casa tranquillamente e tutto come prima -. Quelle frasi che miravano a rassicurarmi e che mettevano sullo stesso livello un’atto criminale ed una vaccinazione antinfluenzale, non fecero altro che scatenare in me un senso di rabbia e di sofferenza profonde. Man mano che Marco continuava ad illustrarmi il suo “folle” progetto, cominciavo ad avere la sensazione di ascoltare un perfetto estraneo, come se tutti i momenti belli trascorsi con lui e le promesse scambiateci di eterno amore venissero improvvisamente cancellati con un colpo di spugna. –No, non poteva essere Marco quel verme che mi proponeva una simile vigliaccata!- dissi tra me, illudendomi che quello fosse soltanto un incubo.
Poi lo interruppi:- Marco, stai zitto, ti prego! Non parlare più. Ho capito ce non te la senti di affrontare insieme a me questo “viaggio”e ti prometto che cercherò di non odiarti. Ora ti prego,però, esci dalla mia vita e per sempre -. Ci fu una pausa di qualche secondo in cui nessuno di noi due parlò più, poi Marco riattaccò. A pranzo la mamma cominciò a fare strani discorsi sui tempi in cui lei era giovane mentre papà continuava a mangiare non alzando mai gli occhi dal piatto. Poi fece il nome di mia zia Carmelina che aveva conosciuto da ragazza uno “sciagurato” che era già sposato e l’aveva messa incinta. La vita della zia sarebbe stata sicuramente rovinata se non si fosse rivolta ad una di quelle “praticone” che facevano abortire in casa con tutti i rischi connessi. -Sai Myriam -, disse la mamma assumendo un fastdioso tono da confidente,- certe cose si facevano pure prima e si fanno ancora oggi, solo che voi siete più fortunate perchè potete andare in clinica senza alcun rischio e senza il timore di essere bollate dalla società come “poco di buono”-.
Senza dire una parola mi alzai da tavola e dopo aver guardato negli occhi i mie genitori, corsi in camera mia.
Quella notte stessa, mentre dormivano, misi un po’ di vestiti e la foto del mio compleanno nello zainetto e silenziosamente andai via di casa. Vagai senza meta tutta la notte, assalita anche dalla tentazione di farla finita. Ma poi pensai che non sarebbe stato giusto nei confronti della creatura che portavo in grembo e che non sarei stata molto diversa da Marco ed i miei genitori se avessi cercato la soluzione che sembrava la più facile in quel momento.Ormai stava quasi facendo giorno quando stremata mi sedetti sulle scale della chiesa di San Cristoforo ed infreddolita cercavo di non disperdere il poco calore del mio corpo abbracciando le mie ginocchia. In quel momento di massima frustrazione in cui mi sentivo l’esser più sventurato della terra, mi rimase soltanto la forza di pregare, anche se fino ad allora la mia fede era stata vissuta molto con superficialità. Man mano che pregavo, però, era come se le mie paure si dissolvessero insieme alle ombre della notte che si arrendeva alle luci del nuovo giorno che stava per nascere ed una indescrivibile pace interiore cominciava a pervadere il mio fragile spirito. Sarà libero di non crederci, ma ad un tratto ebbi la netta sensazione di sentire una voce che mi diceva:- non temere, non sei sola. Io sono con te!. Sorridevo e piangevo allo stesso momento, fiduciosa che ce l’avrei fatta. Anche questa volta la luce aveva prevalso sulle tenebre e la vita aveva prevalso sulla morte. Fu allora che decisi che se avessi avuto una bimba l’avrei chiamata Aurora.
Ad un tratto sentii una mano scuotermi delicatamente una spalla: era il parroco della chiesa che, vedendomi raggomitolata sugli scalini, era venuto a chiedermi di entrare. Mi offrì del latte caldo ed ascoltò in silenzio la mia storia. Poi con profonda dolcezza mi disse :- Figlia mia, riposati ora , una sistemazione si troverà per te. E grazie per aver deciso di scegliere la vita, nonostante tutto.

Il giorno successivo trovai sistemazione presso una casa-famiglia e vi sono rimasta anche dopo la nascita della mio angelo.
Qualche giorno fa , durante una piccola recita organizzata a scuola dalle maestre, Aurora vedendo i papà degli altri bimbi che si sgomitavano per fotografare o riprendere con la videocamera i propri figli mi ha chiesto:-E il mio babbo dov’è?. Non sapevo cosa risponderle, ma poi sforzandomi di essere più naturale possibile, le risposi:- Papà ti vuole tantissimo bene, però ha avuto paura di non riuscire ad essere un bravo papà, perciò ora sta in un posto dove si impara a fare i bravi papà. Un giorno, poi, quando si sentirà pronto, ti cercherà e starà sempre con te.
Le avevo detto una terribile bugia e me ne rendevo conto, però mi illudevo di non farla soffrire troppo. Aurora mi guardò con i suoi grandi occhi neri e senza versare neanche una lacrima mi disse:- non è vero, mamma, babbo non mi vuole bene e non verrà mai più! Poi si svincolò dal mio forte abbraccio e corse dalle sue maestre.
La mamma ora viene spesso a trovarci e non riesce a nascondere, ogni volta che ci vede, un certo imbarazzo dovuto ai sensi di colpa che si porta dentro dal giorno che andai via di casa. Il babbo invece non è mai venuto anche se quasi tutti i giorni va a spiare sua nipote all’uscita di scuola, mantenendosi a distanza credendo di non essere visto. Lo conosco toppo bene, è molto orgoglioso e non verrà mai da noi di sua iniziativa. Io l’ho perdonato ed uno di questi giorni credo che gli telefonerò per chiedergli se vuole conoscere Aurora. In fondo, ha gli stessi suoi occhi ed il suo stesso carattere orgoglioso e poi non è giusto privare la mia bambina anche dell’affetto dei nonni. Marco l’ho visto una sola volta al supermercato dove faccio la cassiera. Era in compagnia di una ragazza ed appena si è accorto di me è sbiancato ed ha cambiato fila. Non riuscivo ad odiarlo, ma forse è stato peggio così, perché la sua presenza mi ha lasciato del tutto indifferente nonostante fosse comunque il padre della mia bambina.
Ora , caro professore, la devo salutare e spero di non averla annoiata troppo con le mie storia ma, prima di congedarmi, vorrei che avesse ancora la pazienza di leggere questa mia poesia scritta in un momento di pace con il prossimo e con me stessa:

PERDONO
Per il male che vi ho fatto,
per le ferite che vi ho aperto,
per l’amore che non vi ho donato,
per il sorriso a cui non ho risposto,
per gli sguardi che ho evitato,
per il tempo che non vi ho dedicato,
per il sogno che vi ho frantumato,
per le cose che non vi ho detto,
vi chiedo perdono.

Per le lacrime che non mi avete terso,
per la vita che mi avete spezzato,
per il bene che non avete corrisposto,
per il frutto del mio amore non accolto,
per la dignità che mi avete calpestato,
per le preghiere che non avete ascoltato,
per la verità che mi avete nascosto
per il sangue che ho versato,
io vi ho perdonato

Rimasi circa una decina di minuti seduto a rigirare tra le mani quella lettera, quasi dispiaciuto che fosse finita. Poi infilai una mano nella tasca dei pantaloni, scartai la caramella all’anice che conservavo ancora, la misi in bocca ed uscii di casa.
Myriam non mi ha più scritto, ma ogni volta che mi capita di entrare in una classe, non posso fare a meno, guardando gli occhi delle mie alunne ricchi di sogni e di speranze, di pensare a lei e a quello che aveva saputo insegnare a me, suo professore, con la sua scelta coraggiosa. Ciao, Myriam.



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