Elena Tindaride
di Annalisa Rossi
“ C’è
fiato e uomo nell’aria stasera: tra le case bianche, sopra cui
s’addormenta la luce s’avverte un artificio d’Amore.
Respiro profondo: sensazione di cuore in silenzio, sensazione d’eterno.
Intravedo ombre di uomini che s’attardano pigre: forme scure,
senz’ombra di fronte alle soglie argentate.
Non ricordo da quando soggiaccio a questa specie di sogno: fiamme
rapaci s’accendono in mezzo alle urla di bambini morenti.
Bombe che cadono, macerie che fumano e là, sulla rocca, quell’uomo,
metà mostro di plastica, metà inguainato in corazza
ed elmetto, che alza ben alto un bambino, rosa tenero di carni di
donna, per buttarlo nel vuoto.
Mi sveglio sempre sudata: l’orrore di una realtà percepita
di morte totale, di guerra, di annullamento seriale.
Allora mi alzo.
Clitemnestra, che dorme con me, continua i suoi sogni di certezza
e assoluto.
Lei è bella e già donna.
Io sono ancora un insulso virgulto alla casa.
Polideute, il gemello di Castore, ieri ha intagliato nel legno per
me una bambola magra.
I fratelli ogni tanto si voltano a guardarmi in mezzo alle loro quotidiane
prove di guerra: dei due, però, solo Poli ha per me gesti d’affetto.
Castore, invece, mi sfugge. Intravedo, a volte, il suo sguardo lubrico
da dietro una colonna di crema. Mi scosto a lasciarlo passare.
La nostra è una casa solitaria. Poche le ancelle, meno ancora
i servi.
L’intrico metodico dei gesti non basta a smorzare gli intrecci
degli inferni privati.
Soltanto sul tetto, la sera, svegliata dai sogni di battaglie incendiate
mi sento rivivere.
Stamane, però, al galoppo su un destriero focato è arrivato
quell’uomo.
Mia madre l’ha accolto a guisa di Messalina rinata. Dietro Clitemnestra,
le ancelle e poi io.
Ha lanciato le briglie ad un Castore assai allibito.
I capelli lunghissimi, legati intrecciati, han sbattuto più
volte sul suo dorso nudo e squadrato.
Non ha guardato nessuno.
Fissò su di me unicamente occhi d’aquila nera: un cacciatore
di taglie.
Un guerriero, dal nome famoso. Grande uccisore di mostri, un Buffalo
Bill d’indiscusso valore. Il suo nome non fu pronunciato, tant’era
la fama di questo Clark Gable di roccia.
Solo al banchetto lo venni a sapere: TESEO.
Prima di scendere a mensa, con sguardo di nebbia, Poli arrivò
alle mie stanze: “Imbrattati il viso. Metti un vestito da serva.
Raccogli i capelli e buttaci cenere sopra. Non mi piace come ti guarda
quell’uomo e come nostra madre guarda lui!”.
Ubbidii senza capire: nulla si spiega, del resto, a una bimba.
Alla tavola grande mi fermai nell’angolo oscuro, lontana dal
fuoco delle torce, che da sempre temevo.
Mangiai in silenzio, cercando di confondermi insieme allo sfondo di
canne.
Sentii le parole corrusche di sale che Teseo pronunciò: “
E’ inutile che voi la mettiate nell’angolo oscuro. E’
lei stessa la torcia, il solo vederla scalda il cuore di qualsiasi
uomo mortale!”.
Raggelai dal di dentro.
LA FIAMMA ERO IO!
ERA MIA LA NATURA DEL FUOCO!
Ero io la guerra rapinosa, il caldo che uccide.
Fuggii in mezzo al palazzo, cercando la grande fontana per spegnere
subito tutto l’ardore del rogo del sangue.
Gridando m’immersi.
Lo straniero fu lì in un soffio, guardandomi dall’alto:
immagine tremolante, fantasma nell’acqua.
Sorrise e mi strappò all’abbraccio gelato, portandomi
all’altezza dei suoi occhi d’inchiostro,. Con una carezza
gentile mi scostò i capelli bagnati, ma di nuovo oro fuso,
dagli occhi: “Ah! Elena bella, non scappare da te. Sei davvero
l’incendio per il cuore di qualunque vivente. Ardi dentro. Bruci
ed accechi gli occhi degl’altri. Nessun’ uomo potrebbe
mai scansarsi dal calore che emani, nera Afrodite, occhi di mare,
capelli ambrati di seta, profilo francese!”.
Fu Poli a strapparmi da lui, cullandomi piano e portandomi, poi, nel
mio letto.
Asciugata, mi stesi a dormire.
Il pericolo, però, rimaneva.
Dovevo, in qualunque modo, evitare d’esser fiamma che uccide.
LA TORCIA DI FUOCO.
Ecco!. Adesso sul tetto il caldo scirocco m’avvolge.
D’esser bella nulla m’importa.
Voglio solo che la vita sia mia.
Né premio, né mezzo per nessun coraggioso che pensi,
solo perché o più ricco, o più forte di altri,
di poter dominare la fiamma.”. |
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