Il giusto peso

di Enrico Scigliuzzo


Mi trovavo in quel particolare stato di grazia che fa seguito all’unione con una donna.

Da allora sono trascorsi molti anni e, con dispiacere, mi accorgo di non ricordare neppure il nome di quella ragazza, anche perché, a pensarci bene, quel nome non l’ho mai saputo.

Nel tepore del mio letto, sotto le coperte pesanti, ci godevamo la tranquillità di quei momenti, con la mente libera da qualsiasi tipo di pensiero. Ci lasciavamo trascinare dal lento moto dei sensi che pacificamente si dondolavano in quella sorta di oblio.

Stavo bene, proprio bene; sentivo il suo corpo caldo appoggiato al mio, soffice e dolce come il suo fiato, ancora lievemente ansimante. Ci conoscevamo solo da poche ore. Restammo uno accanto all’altra a godere del silenzio di quegli istanti, senza dover sopportare il peso di parole inutili e non sentendo il dovere di pronunciarle, in una condizione di intimità probabilmente ingiustificata, ma piacevole, e il piacere era, senza ipocrisie, l’unica cosa che in quel momento interessava entrambe.

Poi accadde. All’inizio, tale era il torpore al quale mi ero abbandonato, non compresi quale fosse l’origine di quel suono, ma poi, per la cattiveria che solo le cose normali sanno avere, mi resi conto che era il telefono che suonava. Nel momento meno opportuno. Pregai che quell’odioso trillo smettesse, che chiunque si trovava all’altro capo non si ostinasse nell’intento di parlarmi. Lo lasciai suonare per un po’, poi mi feci coraggio e, scusandomi, sgusciai da sotto le coperte per andare a rispondere, completamente nudo. Rabbrividii, la casa era fredda e il sudore mi si gelò addosso sgradevolmente. Nel breve tragitto che e mi separava dal telefono, il mio cervello, snebbiato dal freddo, passò in rassegna le diverse motivazioni che potevano spingere qualcuno a cercarmi in piena notte e calcolò quale fosse la più sconveniente in quel momento: ecco, in una frazione di secondo fui assolutamente certo di come sarebbe proseguita la serata. Riagganciai la cornetta imprecando, poi tornai in camera:

-Devo uscire, scusami.

-Cos’é successo? Niente di grave spero…

Era davvero carina, come carina era l’apprensione che si intuiva nel tono della sua voce. La lampada sul comodino dipingeva di luce il suo contorno, seduta sul letto si abbracciava le ginocchia. Non mi sembrava più carina, in quel momento la trovai veramente bella e sentii forte la tentazione di mandare tutto a farsi fottere e tornare a farmi scaldare da lei. Ma non potevo, come si dice…”il lavoro è lavoro”. Allora ci credevo, credevo alla dedizione e al sacrificio che nobilita; adesso, anche se il mio animo è diventato sicuramente più nobile, dopo che ho rinunciato a mille cose belle in nome di un malinteso senso della professionalità, mi rendo conto che è la più grassa bestialità che un uomo sano di mente possa pensare.

-No, niente di grave…una chiamata di lavoro, un parto. Mi dispiace, ma devo andare per forza; tu, se vuoi, ti puoi fermare. Magari non ci metto molto.

Mentre pronunciavo questa vergognosa sequela di assurdità, avevo già preso a vestirmi.

-No- mi rispose – vado anch’io, è solo mezzanotte, posso ancora raggiungere gli altri, non ti preoccupare.

Non aveva il tono arrabbiato, la sua voce era diventata tremendamente neutra e ricordo che questo mi ferì.

Ci rivestimmo entrambe in silenzio, un silenzio pregno di imbarazzo perché eravamo tornati ad essere due estranei e capivamo che nel tempo di un soffio ci eravamo allontanati di anni luce l’uno dall’altra. Una distanza incolmabile, da lì in poi solo “gli altri” avrebbero potuto godere della sua compagnia. Chi fossero non l’ho mai saputo.

Ci salutammo nell’atrio della palazzina in cui vivevo, dandoci impacciati la mano, da semplici conoscenti quali in effetti eravamo. Le solite parole di circostanza, “sono stato bene con te”, “ci sentiamo”, “ti chiamo io”, salvo poi rendermi conto che, anche volendo cercarla, non avrei saputo come. La guardai andarsene, stretta nel suo cappotto di lana, camminava tenendo le braccia conserte sul petto e ad ogni passo i suoi fianchi oscillavano come a negare promesse che non era più possibile mantenere. Scomparve alla mia vista senza neppure voltarsi, mentre io restai per un po’ a rimirare la sua figura che, nella mia mente, continuavo a vedere allontanarsi da me.

Sospirando, mi portai in garage e, dopo aver controllato che non mancasse nulla nel set chirurgico che tenevo sempre pronto nel bagagliaio della macchina, mi avviai verso il compimento di quel dovere che, sapevo, mi avrebbe anche privato del sonno per tutto il resto della notte.

Era una notte particolarmente limpida, fatto strano per quel periodo dell’anno e, soprattutto, per quella zona; il freddo era molto intenso e l’idea di mettermi a lavorare all’aperto, con la sola protezione di una giacca a vento senza maniche sotto il camice monouso e sopra al maglione di lana, non mi sorrideva affatto. Sapevo che dopo un po’ mi si sarebbero intorpidite le mani e tutto sarebbe diventato più complicato, speravo solo di non doverci mettere molto.

Imboccai la serie di stradine di campagna che conducevano alla cascina Bellina, dove, infreddoliti più che trepidanti, mi stavano aspettando un paio di allevatori di quelli di una volta, capaci di lavorare ventiquattrore di fila, di andare subito dopo all’osteria per riprendersi dalle fatiche e poi ricominciare tutto daccapo. Non propriamente dei signorini, ma di certo brave persone, grandi lavoratori con le mani deformate dall’uso; purtroppo anche arruffoni dotati di un’inventiva perversa che in più occasioni mi aveva messo in difficoltà. Tutte le volte che mi capitava di dover andare da loro per qualche motivo, che fosse lavoro di routine o per qualche emergenza come quella notte importava poco, sapevo di dovermi aspettare qualche sorpresa.

Ad ogni curva, i fari della macchina mi rimandavano l’immagine degli stocchi di mais, tagliato già da settimane, che si protendevano verso il buio, secchi e scheletrici come le dita di un vecchio; dopo l’ultima curva, vidi in fondo allo sterrato l’ingresso della cascina, con il portone ad arco in mattoni rossi che sembrava una bocca maligna pronta ad inghiottirmi. Di giorno faceva decisamente un altro effetto. Anche se fino ad un centinaio di anni prima era stato un posto molto triste, dove bambini senza una famiglia venivano cresciuti in qualche modo da persone che, a quanto si diceva, tutto erano tranne che caritatevoli, alla luce del sole appariva un luogo quasi allegro, bucolico, forse per il contrasto tra il rosso dei mattoni del muro di cinta e il verde intenso dell’edera che cresceva un po’ dappertutto, oppure perché, con i torrioni che ancora facevano bella mostra di sé agli angoli della costruzione, poteva sembrare una specie di fortino, una sorta di castello circondato da un verde insospettabile a pochi chilometri da una grande città. Era un bel posto e credo lo sia tutt’ora.

Appena scesi dalla macchina, i due fratelli mi vennero incontro per accompagnarmi al recinto dove si trovava l’oggetto delle loro ultime fatiche. Il più anziano sfoggiava un elegantissimo cappotto che, sotto le patacche della più disparata natura, si intuiva essere stato un tempo grigio spigato.

- Dutur, sem minga stai buni de tirà fëura al vedel, l’era gros, al ghe paseva no! …l’em segà in dü!

Speravo che l’avesse detto per scherzo, così, come battuta, invece quando fui dappresso al recinto, illuminato dai fari del trattore, mi resi conto che quella volta avevano superato loro stessi. Davanti agli occhi mi si parò l’immagine di una vacca sfinita, con la metà posteriore lorda di sangue fino alla groppa, e con di fianco la parte anteriore del suo vitello, con le budella oscenamente sparse sulla paglia. Non potevo crederci… l’avevano fatto davvero; in quel momento avrei voluto essere da qualsiasi parte tranne che lì. Mi annusai le mani e, nonostante l’olezzo delle feci e del sangue, riuscii a percepire ancora un po’ dell’odore di lei, e la cosa di certo non mi fece stare meglio.

Mi sentivo avvilito dalla stupidità di quegli uomini, neanche da loro mi sarei aspettato una cosa del genere. Il vitello era chiaramente macrosomico e non riusciva ad attraversare il canale del parto perché il suo bacino andava ad incastrarsi con quello della madre; lo avrebbe capito chiunque, ma loro no. Per una qualche strana ragione, la cosa più logica da farsi gli era sembrata il tagliarlo in due, non pensando che, se non passava da intero, tanto meno sarebbe passato una volta che la metà posteriore fosse ricaduta nell’utero. Una vera alzata di ingegno.

Speravo solo che il vitello fosse stato già morto quando lo avevano tagliato, ma, a quel punto, preferii non indagare.

Normalmente parlo poco, in quel momento la voglia di parlare mi era passata completamente; pensai rapidamente a quale potesse essere l’approccio migliore al problema. Avrei potuto effettuare una fetotomia, ma mi sembrava molto rischioso, perché le condizioni dell’animale erano indubbiamente precarie e il canale del parto, dopo che entrambe gli allevatori vi avevano trafficato maldestramente per ore, era edematoso e lasciava poco agio per maneggiare il fetotomo in sicurezza; sarebbe bastata una manovra azzardata per provocare lacerazioni ed emorragie di difficile risoluzione. Decisi di praticare un taglio cesareo, che al momento mi appariva l’unica via percorribile per estrarre con un certo margine di tranquillità ciò che restava del vitello e riuscire così a salvare perlomeno la vacca. Comunicai la mia decisione agli allevatori, i quali, anche se storcendo il naso per la maggiorazione di costi che l’intervento comportava, acconsentirono, forse per un inconscio senso di colpa.

La vacca era una di quelle che, per una qualche combinazione di geni recessivi, presentava, invece della tipica colorazione bianca e nera, un mantello rosso e bianco; sono sempre state poche le vacche con quel particolare tipo di mantello, e, oggi, per la selezione genetica cui sono state sottoposte le mandrie, sono praticamente scomparse. A me sono sempre piaciute in maniera particolare, le trovo, per così dire, originali. Peccato non vederne più.

Appena cominciai ad insaponarle il fianco per rasare il pelo, l’animale, esausto per quello che aveva dovuto subire, si lasciò andare e si sdraiò a terra, rendendomi, suo malgrado, le cose ancora più difficili. Se un cesareo eseguito da solo su una vacca in piedi e in buone condizioni è una cosa faticosa, praticato su un animale a terra è massacrante. Restai curvo a spaccarmici la schiena per quasi due ore; con le mani intorpidite dal freddo e il sangue che gelava sui guanti, dopo un po’ sentivo la presa sul portaaghi farsi sempre più debole e un paio di volte mi dovetti fermare per scaldarmi le mani immergendole in un secchio di acqua calda. Il mio pubblico, i fratelli Menàti (con l’accento sulla a, come tenevano sempre a precisare), mi guardava interessato, li sentivo fare commenti sottovoce e scambiarsi opinioni, ma a me interessava solo finire il più in fretta possibile. Se io ero stanco, la vacca era addirittura stremata, la sentivo già da un po’ digrignare i denti e gemere, come fanno i bovini, animali per natura molto resistenti al dolore, quando la loro sofferenza raggiunge il limite della sopportazione. Il povero animale, quel limite lo aveva già superato da un pezzo.

Ogni tanto si voltava a guardarmi, implorante, con l’unico occhio rimastole, perché l’altro le era esploso tempo prima a seguito di una forconata somministratale, sicuramente per qualche insignificante motivo, dal più giovane dei due fenomeni Menàti, come mi raccontavano loro stessi, quasi orgogliosi, mentre stavo operando.

Finii di suturare il fianco della vacca ormai in preda ad un tremore incontrollabile; le infusi due sacche di soluzione fisiologica tiepida nella giugulare, le somministrai l’antibiotico e un’abbondante dose di cortisone. Mi lavai più in fretta che potei, nel secchio d’acqua ormai gelida, senza dire nulla ai Menàti, mentre loro, invece, si profusero in tutti i complimenti di cui erano capaci; in realtà avevo voglia di mandarli dove penso dovrebbero andare quelli come loro, ma a quel punto avrei solo ottenuto il risultato di perdere dei clienti, e non era il caso. Rimisi in ordine alla bell’e meglio i ferri e, promettendo che sarei passato a controllare l’animale il giorno dopo, salii di corsa in macchina, più o meno senza salutare. Tra una cosa e l’altra si erano fatte le tre passate quando, con il riscaldamento al massimo, presi a percorrere la strada verso casa; confuso e stralunato ripensavo a quanto era successo. Avrebbe potuto essere una notte fantastica e invece era terminata nel peggior modo possibile. Pensavo che mi sarebbe piaciuto ritrovare la ragazza ad aspettarmi, al mio ritorno a casa, o almeno sapere dove cercarla. Mi portai le mani al viso, ma del suo odore non c’era più traccia, solo l’aroma pungente del disinfettante, lo stesso odore che, da lì in poi per un certo periodo, ogni volta che arrivava a stimolare le mie narici mi diceva “sei veramente un coglione… “

E mi sentivo proprio così: un coglione.

Il giorno seguente, prima di andare dai Menàti, mi fermai alla libreria dove avevo conosciuto quella ragazza che temevo sarebbe diventata la mia ossessione. Speravo, pur sapendo che si trattava di una pia illusione, di ritrovarla mentre spulciava vecchi libri di storia, come stava facendo il giorno prima, quando mi chiese un parere su un testo del quale ignoravo perfino l’esistenza. Tornai alla libreria anche il giorno dopo e quello dopo ancora, poi mi misi il cuore in pace e cominciai a rassegnarmi all’idea che non l’avrei più rivista, mescolando il ricordo, il rimpianto e la triste coscienza di avere perso qualcosa che avevo potuto solo assaggiare.

Passò poi molto tempo da quella sera. A lei pensavo ormai raramente, in pratica quasi mai, ma quando mi capitava era sempre con una punta di nostalgia e di curiosità; dai Menàti non andavo più. Avevo ceduto la loro stalla ad un giovane collega che mi aveva seguito, come molti altri nel corso di quegli anni, per apprendere i rudimenti della professione pratica. Quando glielo dissi, il collega si mostrò contentissimo, gli si illuminò il viso come se avesse fatto tredici al totocalcio e non smetteva più di ringraziarmi; ma credo che si sia ben presto reso conto che, in realtà, era stato lui a farmi un piacere.

In quel periodo ottenni anche la condotta della zona dove operavo, e questo fatto comportò un notevole aumento del lavoro; dovetti iniziare ad occuparmi anche delle macellazioni che avvenivano nel territorio, con le visite che di prassi dovevano essere svolte, ante e post mortem, sugli animali macellati.

Fu proprio in un macello che la rividi, e la riconobbi subito…non la ragazza, la vacca.

Sapevo di non sbagliarmi, ma per sicurezza volli controllare il documento di trasporto: “Provenienza: Az. Agr. F.lli Menàti – C.na Bellina…”

E’ difficile da spiegare, e può apparire una cosa stupida, ma è stato come un rigurgito di emozioni, mi sentivo contento come quando, inaspettatamente, ti capita di incontrare qualcuno che era a militare con te. Magari non gli pensavi da decenni, e non hai neppure nulla di particolare da dirgli, ma il solo rivederlo è sufficiente a farti rivivere momenti che credevi di aver dimenticato e che invece ti stavano solo dormendo dentro.

Mi fermai a guardarla, e guardandola mi rivedevo chino a trafficarle nell’addome col pensiero rivolto altrove.

Quando vidi l’operaio caricare la pistola a proiettile captivo fui preso da una profonda tristezza; l’animale era contenuto nella gabbia di stordimento e rivolgeva lo sguardo buono del suo unico occhio tutt’attorno, senza capire.

Poi un colpo secco, le zampe che cedono alla prepotenza e una domanda che mi ronzava nel cervello…ma tutto questo ha un senso?



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