Medusa
di Annalisa Rossi
MEDUSA
Medusa è il mostro con i capelli serpentini, che rendeva pietra
chiunque ne incrociasse lo sguardo. Fu uccisa da Perseo, che regalò
la sua testa alla dea Atena. Quest’ultima la appese sulla sua
Egida, il mantello che la proteggeva, per servirsene come arma.
Medusa
s'arriccia i capelli, specchiandosi in una pozza.
Già sa che tra breve, un uomo che compie un destino, regalerà
la sua testa a una dea.
Il sangue del mondo pulsa nei suoi capelli, orfici simboli di mistero.
Volto di marmorea e scolpita bellezza, perle di nebbia su un collo
sottile
- Sorelle, fiamme d'orizzonte, dove siete?-.
Medusa, che non può amare, aspetta, da sola, la morte, un
mostro nel cuore.
Si assopisce il colore dietro le montagne, calano, lunghe, le ombre.
Medusa, seduta,-labbra di ciliegia-contempla la sua caviglia perfetta.
Tristezza la prende, ogni sera, l'attanaglia piano e la sazia.
La sua voglia di essere in grado di leggere negli occhi d'un altro
antiche mattine, sonnolenti lontananze, sognanti inverni, singhiozzanti
acque, inconsce paure, brucianti sospiri, si perde, riflessa in
globi di nerofumo.
Quale vita è, la vita che ti condanna alla paura degli sguardi
degli altri?
Una vita-scalinata ripida nel vuoto, vertigine della tua infanzia,
che s'apriva a ventaglio sul mare. Guardavi, Medusa, giù
nel vuoto, verso il mondo, la paura di non trovare un possibile
appiglio per vivere.
La vita, tremendo respiro, e l'altalena del Tempo, mistero d'ambrosia,
han cancellato i sorrisi, labbra di mora; han generato il tuo strazio
in attimi d'oblio.
MOSTRO. Spiriti serali, ectoplasmi prigionieri di urla e dolore.
Medusa che non sa amare, aspetta la morte, da sola, i capelli saettanti
e nervosi.
MOSTRO, ma mostro di pensieri, d'esistenza, di colori e d'arcobaleni
temperati da acque di cristallo, d' alisei di paure, di confusione
d'uragani, di fertili sogni, d'azzurre lacrime, di corallini sorrisi.
Nei giorni perduti a rincorrere il mondo, Medusa già sapeva.
Nel fuoco d'uno sguardo, occhi vuoti, di pietra: ecco il MOSTRO-Scappate,
ecco il mostro! Attenzione! Uno sguardo e v'impetra! Correte, il
roveto già brucia! La strega! Capelli-serpenti d'ebrea! Imbracciate
i forconi! Prendete i fucili! Non guardatele gl'occhi! Crucifige!
Venite! Correte! Attenzione! Una donna! Senz'anima! Lebbrosa! Bianca
forma insonne!Attenzione: uno sguardo e v'impetra!
Una vita scoperta di gesti vuoti, di chi, libero, senza guida, si
riempie la bocca di rose mature e concrete.
Medusa, stasera, la chioma scoscesa che s'agita viva, attende, tra
le note sommesse del volo degl'ultimi uccelli.
Medusa, sguardo di notte senza stelle, si stringe le mani di schiuma.
Aspetta, serena, l'uomo che, solo, potrà cercarle lo sguardo.
La vita, fuori, spigola le ore e acuisce il Tempo, mentre pallide
ombre rinnovan lo sgomento.
Medusa si veste d'una fumosa ragnatela di luce: nessuno ha mai contemplato
la bellezza rappresa del suo corpo stupendo-Ah! il Mostro! Fuggite!Uno
sguardo e v'impetra! Ecco, prendete le pietre, lanciatele addosso
a Maria Maddalena! Attenzione, ché mangia i bambini! Scappate!
Sparate! Comunista! Di certo ha anche un piede caprino! Attenti!
Uno sguardo e v'impetra! -
Medusa si stende sul viso un profumo potente, che tradisce l'incanto.
I capelli si agitan, vivi: il suo cuore sta contando le ore.
Verrà, S'ergerà su di lei. Vanterà un'impressione
di occhi.
L'ha spiato, Medusa,-oh! SI!- tante volte.
E' sicuro, beffardo. Un po' le somiglia: taciturno, fronte stellata,
assente sovente, con occhi che volano via.
E' forte, placido e misurato nei gesti. Non spreca. Ebbro si sé.
E' un uomo. Un semplice uomo.
Verrà, porterà tutta la sua deserta normalità:
unico fra tutti, occhi profondi, dove aleggia la sua notte.
Medusa si liscia i capelli con un pettine dai denti di luna, silenziosa.
Nell'ombra la parola senz'eco diventa presenza.
Il mostro si alza, denuda il suo corpo di statua timorosa: lui è
l'unico che potrà mai amarti .Bianche conchiglie i tuoi seni.
Il mostro-Attento, Teseo!- è scaltro. Adesso sembra normale,
ma guarda! : serpenti i capelli, crepuscolo gli occhi!-Attento!
Uno sguardo e t'impetra!-
Trasparenti occhi riflette lo specchio, muti, occulti profumi di
gioie, colmi di luce e di musica arcana, colmi d'amore.
Scivola il corpo in quest' isolata ora di morte.
L'uomo nero raccoglie la testa in un drappo. Il mostro è
morto.
S'accende, lontano, nel mare una luce di seta.
Medusa si perde nell'ultimo remo.
I capelli si agitan ,vivi.
Teseo li sente, tra le sue mani di foglie aggrapparsi alla notte.
Medusa ascolta felice il fiato e l'uomo nell'aria.
Tragicamente alzate, le palpebre riflettono il buio.
CALIPSO
Calipso,
il cui nome vuol dire la Nascosta, è la Ninfa che nell’Odissea
trattiene Ulisse con sé per otto anni, inutilmente offrendogli
l’immortalità perché rimanesse con lei. Ermes
le ordinerà di lasciarlo partire per volere di Zeus. In realtà
Calipso è una delle antiche dee mediterranee, le POTNIA METER,
relegata lontana dal potere, che ora detengono gli dei Olimpici
indoeuropei, giunti con gli invasori achei, e poi eoli, ioni e dori.
Te,
grande dea bianca, pòtnia méter, silenzio di basilico
e olivo. Te, nascosta, spodestata, ancorata polena d'isola, che
s'inabissa nel Tempo, quale dio, dagl'occhi di ramarro o serpente,
ti lasciò a guardar nubi e mare in un deserto d'amore?
A chi canti il mattino in una malinconica nenia di glicini viola?
Ti ergi nel Sole: aspetto tremendo in numinosità di dea,
montagna di specchi albastrini, profilo d'ardesia, bianca purezza
di vergine antica.
Sorridi, le trecce gettate sui seni, coppe di magnolia.
Sorridi, vibrante, al mattino, occhi di definitivo cristallo.
Grande meretrice di Bal, l'amore l'hai avuto altre volte: ogni giorno
s'accende di nuovi brividi santi. Hai aperto le gambe a tutti i
destini, acclamata da tutti i maestri.
Sorridi, esaltante, nel bianco-glauco del mare, le labbra d'argento
di Elena, appena rapita, son tue. Son tue le mani di rosa di Cleopatra,
che ungevano d'oro il corpo di Cesare Magno. D'avorio la voce d'
Isotta, adultera senza vergogne, è la tua. E' tuo lo sguardo
di vento della d' Este Isabella, che rapinò un cardinale.
Lo sguardo di foglie autunnali d'Artemisia pittrice è il
tuo. E' tuo il sesso di giallo tulipano di Josephine che imperò
Napoleone.
Un attimo solo: e quell'uomo?
Ricordi, signora di sabbia?.....quell'uomo!??.
Era uno come tanti.
Arrivò fino a te dalla croce del Sud. Fino a te. Arrivò
in un giorno di sale e di mare, di caldo e memorie, di siesta e
di grilli.
Andasti a vederlo. Normale. Assolutamente normale, cuore naufrago
e sale, su un corpo abbruciato. Normale. Incredibilmente normale,mente
fredda e alghe, su capelli di onde.
Alzò gl'occhi dal tronco cui stava aggrappato- stan sempre
aggrappati ad un tronco, gli uomini- e ti vide, cozzando con gl'occhi
sopra il tuo duro splendore.
Vento fermo.
Ma quanto ti palpitò il cuore, a vedergli quegl'occhi?-Caterina
la Grande si prese anche il più giovane ussaro-.
Oppure ti si addormentarono i seni?- Elisabetta, l'inglese, sopportava
solo i pirati-.
Lui ti guardò, deciso, ma stanco, con tutta la stanchezza
del mondo.
Fu, forse, il lapislazzulo della sua indicibile passione, senza
radici, che ti portasti al monte?- Dalila, l'ebrea, cuciva coperte
coi crini di Sansone-
Dopo, ricordi?
Cullasti da sola i suoi fianchi onerosi per anni: tu, la donna di
sole, che portasti i francesi fin dentro Orleans, che da sola, allora
Matilde, costringesti nella neve un impero.
Lui ti rispose gemendo tristezze, languidezze di uomo-AH!, mio Enrico!
: E' già tanto se non ti faccio tagliare la testa!-
Risanasti da sola il suo sangue di piombo pesante con baci e chicchi
d'amor voluttuoso- regina Vittoria, governasti un impero-
L'amasti. Come sa amare una donna, quando non cerca né scienza
né ombra- Manon, gelida mano, riuscì ad unire l'eterno
all'amore-
E tu, la grande, l'immota che sprofonda nel Tempo, gli offristi
d'esser rumore di sole al tuo petto. Avventata Calipso!!!! Hai raccolto
una vita in tela di ragno.
Troppo amore!!! Così non volle restare.- Marylin bionda s'uccise
per John con pastiglie di resina scura-
La storia poi disse che t'ordinarono di farlo partire.-ma fu Orfeo
a girarsi o Euridice a scappare?-
Se ne andò, impacciato e guardingo: era un uomo, un uomo
normale.
Molto tempo è passato. raccogli i pensieri, rugiada notturna,
o Calipso, nascondi i momenti del sogno.
Da tanto tempo t'han detto ch'è morto.
Altera passasti tra minuti di gloria, Mata Hari e Curie Maria.
Un sospiro ed un mondo.
Ma qui solo l'attimo conta e tu canti un tramonto che è alba
NAUSICAA
Odisseo, dopo essersi congedato da Calipso, è incorso nell'ennesimo
naufragio a causa di una violenta tempesta che lo ha trascinato
sull'isola di Scheria, abitata dai Feaci. Qui incontra Nausicaa,
figlia del re dell'isola Alcinoo. , che era andata alla spiaggia
per lavare dei panni con le sue ancelle. Nell’Odissea Nausicaa
scopre Ulisse in pessime condizioni e lo esorta a lavarsi al fiume.
Così Odisseo, grazie anche all'influsso magico di Atena,
recupera tutto il suo fascino, lasciando a bocca aperta Nausicaa,
che presa dall'emozione confida il suo colpo di fulmine alle ancelle.
(Libro VI vv.238-246).Questa la storia. Qui Nausicaa è immaginata
alcuni anni dopo, promessa sposa, che però non ha scordato
lo straniero venuto dal mare.
"Han stabilito le nozze.
La tunica rossa di porpora e il bordo d'oro son fatti.
Le donne giù, nelle stanze, preparano perle d'ostrica bianca
per i monili del vincolo sacro, tramano stoffe di pepe e cannella,
di risa e di sogni.
Lini preziosi han tinto per me, per me sola, figlia di re, merce
da accordo.
Lui l'ho intravisto di notte: un uomo magro e concreto, gran barba
oscillante.
Non ho partecipato al banchetto: è stato solo un trattato
d'affari, d'alleanze legate attraverso una donna e un futuro previsto
di figli.
Tutti i giorni la torre, rifugio dei gabbiani più vecchi,
quella che s'affaccia sul porto, ha un'ospite.
Qui vengo a cercar timorosa gli atleti che tornano a casa, ma non
c'è chi li vinse.
Son passati degli anni: Nessuno ritorna!
Ritornano forse i fantasmi?
Dovrò smettere anche quest'ultimo rito.
Nessuno, Nessuno ritorna!!
La maschera pura che indosso ogni giorno m'ha resa appetibile a
molti.
Occhi che scivolano come acqua su tutti e su tutto lo chiaman pudore
e virtù, ma non sanno che, prima di tutto, t'abitui a annusare.
Una madre odore di croco, un padre incenso e wisky di scozia, sorelle
sangue dolciastro e clorofilla amara. Le serve, arguzia di chimica
rosa. Zolfo e salnitro infidi, i cortigiani. Pietra e polvere, i
guerrieri. Olio di noce e afrore animale, gli atleti.
Bambina, giocavo occhichiusi a pensare: un odore, un carattere.
M'immaginavo accecata, immersa nel buio, senza l'attacco violento
del Sole, non costretta ogni dove a uno scivolo d'occhi.
Pudore e virtù.
Appena fanciulla successe il fattaccio.
Vicino alla polla fuori le mura, riverso in mezzo alle putride canne,
fu lì che lo vidi.
Guardai, ringraziando che gli fosse sepolta la luce degli occhi
fin dentro la sabbia.
Fermammo il carro, noi donne ed ancelle, eccitate.
Sembrava un cadavere uscito da un naufragio di sangue.
Per questo guardai.
Che non fosse un ragazzo s'intuiva dalle mani seccate, autostrade
le vene. Ma era robusto, la pelle rattrappita dall'acqua e dal sale
di giorni.
Era bruno, ma di pelle soltanto. Barba folta e capelli di narciso
da lungo sbocciato. Piedi lunghi, un po' piatti, abituati alla nave.
Biondo il sesso di uomo.
Le mie donne si fermarono per cercare un profilo finito.
Le scostai con un gesto imperioso.
Mi mossi da sola.
Da vicino annusai: tela celeste e felce. Poi un profumo innocente
di muschio e di umido orso.
L'illuminazione mi giunse improvvisa, nell'attimo dello sguardo
fermato.
Fino ad allora erano solo i miei occhi ad essere sempre rimasti
per terra, mentre in realtà il mio pensiero volava già
in alto, nel tempo.
Uno scatto improvviso nel corpo dell'uomo mi disse che sarebbe vissuto.
Sbatté gl'occhi e mi vide. Tremò. Mi scambiò,
illuminata com'ero dal sole, per un'ombra di morte.
S'alzò.
Erano anni che la mia vita andava in cerca d'un desiderio, uno scopo,
ed ora eccolo! : raggrumato tutto in un unico uomo.
Si riparò nel canneto, intuendo noi essere donne soltanto.
Anche Davide fuggì sulle prime Betzabea, la bella, impossibile
premio?
Anche il Sole di Luigi di Francia cercò una nube quando vide
Madam de Montespan per la prima volta?
O Tristano anche lui all'inizio nascose il suo viso, per non cogliere
l'irrealizzabile desiderio d'Isotta?
Ma no!!! Loro non erano vergini!!!
La differenza sta lì.
Implorò, invece, Ulisse, una veste e un riparo, passandomi
addosso quei grandi occhi viola.
Riconobbe, da buon latin lover, la rosa dalla purissima carne, l'ineffabile
fragranza del fiore non colto. Riconobbe a un'occhiata tutto questo,
con la struggente nostalgia della tristezza.
Valutò le mie caviglie da gazzella, il corpo scuro e flessuoso,
il profilo vagamente rapace.
Ne sostenni lo sguardo e sciolsi in gesto nervoso i miei lunghi
corvini capelli.
Ordinai con un gesto imperioso alle ancelle la veste. Lo feci salire
sul carro.
Fu compito e gentile. Guardava spesso alla rocca. Lo lasciammo al
cortile.
Lo rividi la sera, al banchetto, camicia di seta, zafferano i capelli,
malva tra le graminacee.
Fu un attimo solo, ma ne accettai lo sguardo.
S'inchinò sogghignando, da leone consapevole e feroce.
Se mi avesse voluta, lì, in quell'istante, gli avrei offerto
tuberose e giacinti, sarei diventata cavalla che riesce a perdere
il morso.
Ritornò al suo posto.
Se ne andò il giorno dopo, lancia in resta, Don Chisciotte
dei mari.
Lo vidi partire per ritornare dentro l'ombra, sotto gli olivi che
inghiotton le onde.
Rimpiansi da allora il mio unico e ultimo sguardo sul mondo.
Mi trascinai ogni giorno dalla cucina al letto e di sera alla torre,
per illudermi ancora di vederlo tornare.
Da qui l'aria odora di muli e merletti, di dalie e gioielli.
Ieri m'han dato un marito. Da oggi conto qualcosa. Son pegno di
pace.
Intanto sul porto e sul molo si siede il grigiore della notte che
incombe.
Nessuna distanza colmerà mai la tua assenza, uomo di rame
e di mirto.
Se tu non fossi venuto, stanotte non avrei indossato la tunica nera,
novella di Svezia regina Cristina, per scappare a un marito già
secco, ad una routine di regina, al rischio di figli.
Il mio pensiero ti gira intorno come vento di scogliera e apre la
nuvola nera il volto di te, l'amato, il guardato.
Fuggirò per cercare un istante che sia pieno di occhi.".
CIRCE
Di Circe la maga che tramutava in bestie gli uomini, tutti sanno.Qualcuno
ricorda che l’unico che non riuscì a trasformare fu
il navigatissimo Ulisse, che fu reso immune dalle erbe dategli da
Ermete.
Si fermò poi molti mesi presso la maga, andandosene, dopo
aver riavuto i compagni ritramutati in uomini e le istruzioni per
scender nell’Ade ad ascoltare il suo destino. Qui la maga
si rivolge a Ulisse nell’alba del mattino che lo vedrà
partire
"Dormi, Odisseo, disteso nel letto di piume: scuro profilo
nel bagliore inquieto del bianco tenebroso dei veli.
Riposa il tuo corpo, vinto dal mio che non conosce stanchezza: nelle
pieghe confuse degli odori dei corpi, accanto alle parole non dette,
rimane un'essenza d'animale.
Tutto hai dimenticato nella furia dell'amore, anche l'ansia del
viaggio.
So che partirai. So che questo attimo è solo vuota finzione,
immagine riflessa nello specchio della felicità. Tu sogni
stracci di vita e di mare, il tuo mare. Sogni la nave e le cupe
ninfee d'altre sponde.
Sicuramente salperai gridando "Mille regretz de t'abandonner",
ma già ben saldo, sulla tolda, piedipiantati, aggrappato
alla vela.
Oh! Sì! Mi fisserai, fino all'orizzonte, ma andrai.
Davvero troppo tardi l'ombra del viso sul cuscino scandirà
il Tuo destino dal Mio. Fuori adesso una brezza mattutina fa danza
e lamento.
I maiali nella stalla si muovono inquieti.
I lupi, distratti dall'aurora, ritornano al monte.
Ognuno di voi possiede una montagna di giochi e ricordi e, per quanto
vagabondiate, alla fine, Voi là tutti tornate.
Cercate un destino, ardete nel limite.
Alessandro, il più Grande di tutti cercava l'orizzonte del
mare: la fontana del palazzo di Pella dove sognava le vele, lo segnò
fin da bambino.
A te il grugnito dei porci t'indigna, l'ululato dei lupi t'affanna.
Non capisci l'enormità del mio gesto: solo loro gustano fino
in fondo il sapore del mondo.
Hai a suo tempo recitato la parte.
Rispetto. Meraviglia. Stupore. Davanti alla strega.
Da uomo che molto ha veduto negli Holliday Inn dell'Oriente, speravi
più bella la maga. Fissasti sui miei fianchi opulenti occhi
come buche feritoie.
Di certo pensasti"Era tutta leggenda!"
Lo stesso pensò Claudio di Poppea, ed era già suo.
Ho sorriso tra me ed iniziato la danza.
Salomé non fu certo più abile. La scuola è
la stessa.
L'offerta del bagno, il vino speziato, il camino ed il cibo la sera,
la coltre pulita.
L'amore passa non solo per gl'occhi.
Sperduto, hai chinato la testa, intuendo d'un tratto d'avere di
colpo smarrito la crudeltà che raggela, che lì il
tuoi occhi eran pieni di ali davanti alle piume mie mani.
Hai ceduto senza violare nessuna delle tue fervide certezze, però.
TI AMO, Odisseo.
Mi piace ripetermi questa parola dalle molte vocali, miele al mio
cuore.
Per questo ti temo, voce soave, amabile viso, odore rasposo di pino.
Fuggo da te.
Stamane andrai, insieme alla agnella nera a spiare il silenzio d'antiche
presenze scomparse.
Cercherò poi la tua assenza, lo so.
Ti farò immortale e ricordo.
TI AMO, perché fin dall'inizio sapevo che saresti partito.
Nessuno ama la felicità d'un eterno presente.
Amiamo solo chi s'ha destino di perdere.
L'Amore insegue solo chi è sua sventura e suo sogno. Beatrice
e Dante ne sanno qualcosa.
Ma qui nelle lunghe giornate, regolate soltanto da profumi e da
grida animali, a volte, ho sperato, l'eterno.
Nell'aggrapparmi, aggrovigliarmi, involgermi in te, troppe notti
ho udito attraverso gli specchi il moltiplicarsi dell'aria.
Come se il cuore al di dentro- nido di silenzi che non han mai volato-
schiudesse echi fatti di carne.
Gli stessi che la bella Eleonora, di diec'anni più vecchia,
ma Aquitana del Sud, aprì in una volta a Enrico, re inglese.
E' questo allora l'Amore?
Un soffio di grida animali?
Pupille senza orizzonti?
Tutte le cellule smosse dal fiato del drago?
Agonia di baci e sospiri?
E dopo, di giorno, riso scoperto di denti, passeggiate profumate
d'ibisco, adolescenti splendori, ardori di sole e d'aranci, forte
calore?
Sono queste le stesse tenerezze dei lupi.
Adesso comincio ad essere stanca di cercare il tuo grembo di uomo
per posare la testa e tacere.
L'alba ora avanza.
I compagni tornati nel mondo stanotte, t'han già preparato
la nave.
Ti guardo, incredibile uomo diventato assoluta presenza, disteso
così nella stanza piena d'attesa soleggiata.
Ti vedo. Tra poco imbarazzato e teso, il corpo d'Apollo fermato,
che indugi alla soglia. "Telefonerò, scriverò,
mai ti scorderò. Tornerò, stanne certa!"
Sarai già favola allora.
"Ecco il biglietto da visita, in fondo c'è la mia mail.
Chiamami pure di qualunque cosa tu abbia bisogno!"
TUTTO IL TRACCIATO DELL'ILLUSIONE PERCORSO IN UN'UNICA FRASE!!!
Sorriderò pudica, ma griderò " Non andare, rimani,
amor mio di sempre, amore di mai!"
La nave sul bordo dell'acqua e ne medesimo istante la donna che
riempie il cielo.
Resterà solo il vuoto della danza sull'ultimo sesso d'animale.".
ELENA TINDARIDE
Di Elena di Sparta, nata da Leda e Zeus (sorella dei Dioscuri e
di Clitemnestra), considerata la donna più bella del mondo,
promessa da Afrodite a Paride di Sparta, in cambio della sua elezione
a Miss Mondo, nel primo concorso di bellezza della storia, tutti
sanno.Meno noto è il fatto che appena dodicenne fu rapita
da Teseo d’Atene, tanto era già potente il suo fascino.
Castore e Polluce( o Polideute) inseguirono l’eroe e la liberarono.
Qui la storia la coglie il giorno dell’arrivo di Teseo a Sparta.
" C'è fiato e uomo nell'aria stasera: tra le case bianche,
sopra cui s'addormenta la luce s'avverte un artificio d'Amore.
Respiro profondo: sensazione di cuore in silenzio, sensazione d'eterno.
Intravedo ombre di uomini che s'attardano pigre: forme scure, senz'ombra
di fronte alle soglie argentate.
Non ricordo da quando soggiaccio a questa specie di sogno: fiamme
rapaci s'accendono in mezzo alle urla di bambini morenti.
Bombe che cadono, macerie che fumano e là, sulla rocca, quell'uomo,
metà mostro di plastica, metà inguainato in corazza
ed elmetto, che alza ben alto un bambino, rosa tenero di carni di
donna, per buttarlo nel vuoto.
Mi sveglio sempre sudata: l'orrore di una realtà percepita
di morte totale, di guerra, di annullamento seriale.
Allora mi alzo.
Clitemnestra, che dorme con me, continua i suoi sogni di certezza
e assoluto.
Lei è bella e già donna.
Io sono ancora un insulso virgulto alla casa.
Polideute, il gemello di Castore, ieri ha intagliato nel legno per
me una bambola magra.
I fratelli ogni tanto si voltano a guardarmi in mezzo alle loro
quotidiane prove di guerra: dei due, però, solo Poli ha per
me gesti d'affetto. Castore, invece, mi sfugge. Intravedo, a volte,
il suo sguardo lubrico da dietro una colonna di crema. Mi scosto
a lasciarlo passare.
La nostra è una casa solitaria. Poche le ancelle, meno ancora
i servi.
L'intrico metodico dei gesti non basta a smorzare gli intrecci degli
inferni privati.
Soltanto sul tetto, la sera, svegliata dai sogni di battaglie incendiate
mi sento rivivere.
Stamane, però, al galoppo su un destriero focato è
arrivato quell'uomo.
Mia madre l'ha accolto a guisa di Messalina rinata. Dietro Clitemnestra,
le ancelle e poi io.
Ha lanciato le briglie ad un Castore assai allibito.
I capelli lunghissimi, legati intrecciati, han sbattuto più
volte sul suo dorso nudo e squadrato.
Non ha guardato nessuno.
Fissò su di me unicamente occhi d'aquila nera: un cacciatore
di taglie.
Un guerriero, dal nome famoso. Grande uccisore di mostri, un Buffalo
Bill d'indiscusso valore. Il suo nome non fu pronunciato, tant'era
la fama di questo Clark Gable di roccia.
Solo al banchetto lo venni a sapere: TESEO.
Prima di scendere a mensa, con sguardo di nebbia, Poli arrivò
alle mie stanze: "Imbrattati il viso. Metti un vestito da serva.
Raccogli i capelli e buttaci cenere sopra. Non mi piace come ti
guarda quell'uomo e come nostra madre guarda lui!".
Ubbidii senza capire: nulla si spiega, del resto, a una bimba.
Alla tavola grande mi fermai nell'angolo oscuro, lontana dal fuoco
delle torce, che da sempre temevo.
Mangiai in silenzio, cercando di confondermi insieme allo sfondo
di canne.
Sentii le parole corrusche di sale che Teseo pronunciò: "
E' inutile che voi la mettiate nell'angolo oscuro. E' lei stessa
la torcia, il solo vederla scalda il cuore di qualsiasi uomo mortale!".
Raggelai dal di dentro.
LA FIAMMA ERO IO!
ERA MIA LA NATURA DEL FUOCO!
Ero io la guerra rapinosa, il caldo che uccide.
Fuggii in mezzo al palazzo, cercando la grande fontana per spegnere
subito tutto l'ardore del rogo del sangue.
Gridando m'immersi.
Lo straniero fu lì in un soffio, guardandomi dall'alto: immagine
tremolante, fantasma nell'acqua.
Sorrise e mi strappò all'abbraccio gelato, portandomi all'altezza
dei suoi occhi d'inchiostro,. Con una carezza gentile mi scostò
i capelli bagnati, ma di nuovo oro fuso, dagli occhi: "Ah!
Elena bella, non scappare da te. Sei davvero l'incendio per il cuore
di qualunque vivente. Ardi dentro. Bruci ed accechi gli occhi degl'altri.
Nessun' uomo potrebbe mai scansarsi dal calore che emani, nera Afrodite,
occhi di mare, capelli ambrati di seta, profilo francese!".
Fu Poli a strapparmi da lui, cullandomi piano e portandomi, poi,
nel mio letto.
Asciugata, mi stesi a dormire.
Il pericolo, però, rimaneva.
Dovevo, in qualunque modo, evitare d'esser fiamma che uccide. LA
TORCIA DI FUOCO.
Ecco!. Adesso sul tetto il caldo scirocco m'avvolge.
D'esser bella nulla m'importa.
Voglio solo che la vita sia mia.
Né premio, né mezzo per nessun coraggioso che pensi,
solo perché o più ricco, o più forte di altri,
di poter dominare la fiamma.".
DANAE
Della storia di Perseo, figlio di Zeus e di Dànae. già
ho parlato nello scritto MEDUSA.
Ci basti ora sapere che suo nonno materno, Acrìsio re di
Argo, ammonito dall'oracolo che sarebbe stato ucciso per mano del
figlio di sua figlia, fece rinchiudere Danae in una torre di bronzo,
dove Zeus penetrò e, sotto la parvenza d'una pioggia d'oro,
la fece madre di Perseo che, poi, uccisela Medusa e il liberò
Andromeda, figlia di Cefeo e Cassiopea,che poi ebbe in moglie. Tornato
presso l’isola di Serifo, nelle Cicladi, dove il re Polidette
aveva accolto lui e la madre, uccise quest’ultimo ed infine,
per sbaglio, durante una gara,, colpì in fronte il nonno
Acrisio. Per questo scambiò col cugino Metapente il trono
di Argo con quello di Micene.
Qui, Danae, tornata ad Argo con Metapente, scrive a suo figlio.
la lettera
Ti scrivo, figlio mio, poiché a lungo ho taciuto dopo la
tua affrettata partenza.
All’interno del palazzo di Argo, in questa giornata di luce
straniante, i banchieri che vengon da Joppa(o Jaffa, come la chiamano
loro), han discusso di strane alleanze con tuo cugino, Megapente,
sfoderando sorrisi come lame d’amianto.
Ho presenziato all’udienza, in quanto, unica figlia d’Acrisio,
sarei io a dover sostener la corona.
Nessuno,però, di quei feroci serpenti, accetterebbe mai di
trattare con me, così femmina, oltre che donna.
Servo da coreografia per legittimare un potere.
Per dire che l’uomo che siede sul trono sta lì, ché
ha nel sangue qualcosa d’Acrisio, mio padre, e io ne sono
la prova evidente.
ESIBITA.
Una nuova Mary Stuard , mediterranea soltanto. Per me, tuttavia,
non si raccolgono uomini o eserciti, né si tagliano teste:
non c’è un Dio di mezzo.
Sono io la suppellettile preziosa, ma muta, affascinante, ma solo
cortigiana del Dio, madre d’un uomo, un eroe selvaggio, tatuato
nel cuore, Harley Davidson e ruote cromate, domatore di mostri,
conoscente e figlio di Dei, mago degli effetti speciali. Uno pieno
di fans, un eroe mediatico grande, le cui gesta percorrono il mondo,
che salvò da morte sicura una donna d’esotico volto,
fragile statua di marmo, un gran macho che ardì raccoglierne
la bellezza nell’incunabolo delle sue larghissime mani.
Tu, gaucho dei cieli, mio figlio, in groppa al cavallo di piume
tornasti da me, subito dopo l’impresa, con lei, la bella,
l’Urì nera, sogno di pietra, su cui ammaccasti la tua
voglia d’onori.
Che dire ad un figlio lontano?
Che ho saputo di te dagli squali di Jaffa.
Raccontarono a lungo la storia del mostro del Mare che voleva Andromeda,
vergine di spuma pura, per placare la sua sete di uomini.
Raccontarono a lungo di te, ammaliante San Giorgio, splendente nel
cielo, che compivi il miracolo arcano dell’uccisione del satanico
drago.
Compiaciuti, sfregandosi molto le mani, ricordarono anche che le
azioni della banca di Cefeo,il re, salirono fino alle stelle, quando
portasti la vergine intatta con te per farne tua sposa!
Non sapevano che dopo tornasti da me, uccidendo, da distruttore
qual sei, Polidette, che fu l’unico uomo fra tutti gentile
con questa tua madre sfuggente.
Cosa credi che, forse, invece, mi fosse importato poi tanto quando
a Larissa per sbaglio- così almeno dissero tutti!- col disco,
mio padre, tuo nonno hai ucciso, durante la gara?
Finsi- è vero!-sgomento e t’esortai ad andare a Micene,
scambiando il trono e la terra con Metapente, il cugino di letto,
facendoti credere che gli Argivi non t’avrebbero voluto, poiché
eri l’uccisore del re.
Credevo che, tornando da sola, insieme a un estraneo,il popolo m’avrebbe
acclamato prima donna del regno, ed io, senza più pregiudizi
o paure, avrei governato con saggezza e materna virtù.
Il mattino del giorno arrivai in testa al corteo, col cavallo biondo
di pelo, indorata regina, uno sfolgorio nel sole, io, la scelta
da Zeus.
S’inchinarono tutti davanti al nuovo sovrano, guardando sottecchi
la straniera gitana che era con lui.
NON UNO, NON UNO capì chi io fossi.
D’altro canto, appena bambina, mio padre mi rinchiuse nel
chiostro con la vecchia nutrice.
NON UNO avrebbe mai potuto vedermi.
Giocavo solo con bambole vestite da suora. Una vecchia sdentata
mi parlava del mondo ed io, usignolo solitario, cercavo i sentieri
fioriti di là del muro di malta.
Il mio sangue bolliva, impotente di rabbia, di fiamme rosate che
arroventavano le passioni del cuore.
Acrisio, mio padre, tenne lontano da me ogni sforzo d’amore,
il suo e l’altrui.
Gabriele, anche lui, per Maria, fu come una sagoma d’ombra,
onirico messaggero d’ un amore divino?
Forse, fra tutte, noi prede di un Dio, solo lei, però, lo
perse nel sangue.
No, non è vero.
Tutte noi lo perdemmo o nel sangue, o nell’onta o in una sorte
da comparse.
Tuo padre, non so quale sogno fu ,tra i tanti che s’agitarono
a lungo, sospesi ai trapezi del cuore notturno.
Mi svegliai un mattino,appagata da un dolore di luce.
Chi può dire d’averlo mai visto?
Don Giovani divino, inondò col suo seme il mio corpo passivo,
in un dormiveglia d’eternità.
Inutile, adesso, che racconti quelle immagini bianche e i percorsi
sospesi dietro ai miei occhi, a quell’uomo che viene ogni
giorno- lo so che sei tu a mandarlo!-
a quel medico, interessato soltanto ad aprire il mio cuore, per
cercarci le onde riflesse del Sole del Dio, a quel…. quel
Freud !
Non c’è medicina di uomo che tenga davanti al mistero
o all’inconscio.
Per questo sei nato.
Per essere figlio divino, ma non voluto da un uomo. Ce ne sono a
migliaia. Non sei unico, Tu!, come hai sempre creduto: di illustri
bastardi è piena la storia!
L’avventura di quel delittuoso container dove Acrisio rinchiuse
te e me, affidandoci al mare, fu un trauma d’orrore.
Gemevi di freddo, ed io ti cullavo, senza sapere che saresti diventato
chi sei.
Non lo seppe nemmeno Giulia Farnese d’allevare il Valentino,
il terribile duca,
il figlio del Borgia, che mise a fuoco l’Italia.
Avevi riccioli colmi di sospiri di vento ed io ti amavo con cuore
di tigre.
Il giorno e l’isola ci accolsero, poi, come la figlia del
Faraone, Mosè; come la Lupa, Romolo e Remo.
Polidette, quel re d’altre acque, m’amò.
Tu ne eri geloso.
Crescevi, bellissimo e torvo, un principe ombroso nel palazzo con
me.
Volevi di più.
Non ha mai limite, chi, come te, sceglie d’andare.
Non ti fui mai molto vicina- lo so- nei giorni della tua adolescenza
inquieta.
Lavoravo a palazzo, col re, sua segretaria privata.
Lo facevo per te, perché potessi goderti il meglio di tutto.
Te ne andasti a cercare il tuo mostro, che eri solo un ragazzo insolente
per gli anni e per il sangue aggrumato della tua essenza divina.
Tornasti, uccidesti Polidette con lo sguardo della testa mozzata
del mostro, che divenne il tuo sguardo.
Trascinasti con te la tua sposa e tua madre, benché non volessi.
Stasera, lasciati gli onori della corte di Argo, ti scrivo per ricordarti
che nessun cielo o campo mi metterà le catene.
Tornerò al mio chiostro.
Non scriverà un ennesimo uomo col suo gesso una storia non
sua.
Addio, Perseo, non cercarmi.
Non scrivermi lettere col sigillo del re.
M’eclisso nel silenzio di gelsomino e di limone della mia
antica prigione.
Goditi Andromeda, che ha imparato ad annuire da donna.
Tornerò dal mio Dio, farò donazioni al convento per
tutte coloro che, fuggendo da un uomo, cercheranno il riposo muschioso
della casa di un nume.
Almeno fino a che voi uomini avrete il potere!
DANAE,
tua madre.
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